domenica 22 agosto 2010

22 agosto 2010

Ciao amici,


Prandelli e la solitudine dell'allenatore
di DARIO CRESTO-DINA


Cesare Prandelli
FIRENZE - Che campionato sarà quello che comincia domenica prossima? Senza Mourinho, dopo i fallimenti di Capello, Lippi e Maradona il mister tornerà a essere un insegnante di calcio? E sulla scena gli attori saranno uomini, bambini viziati o ragazzi cattivi? Lo domando a Cesare Prandelli, cinquantadue anni, nuovo commissario tecnico della Nazionale. Si parte da lontano, da che cosa c'è o ci dovrebbe essere dentro un mestiere fortunato. Il mestiere di allenare può contenere un desiderio, nient'altro. Chi è nato povero sa che è molto meglio desiderare che possedere. Finché non si possono toccare, le meraviglie inseguite racchiudono in sé qualcosa di magico.

A Orzinuovi il nonno di Prandelli aveva una piccola azienda di acque minerali e bibite, ogni sera riuniva figli e nipoti attorno al tavolo della cucina, contava l'incasso della giornata, metteva i soldi in una scatola e, prima di nasconderla nel tiretto più basso della stufa, teneva da parte una manciata di monete che buttava sul pavimento ai bambini. Cesare era il solo a non raccoglierle. Non voleva chinarsi verso un'elemosina, voleva guadagnarsi il suo Natale. Agognarlo. Lo fa ancora adesso. È rimasto là, nella fila di quelli che desiderano. Dice: "Certo, mi dà fastidio non avere vinto nulla, se non due scudetti e un Viareggio con le giovanili, ma so che succederà presto. Io sono fortunato". Ma subito insiste sulla relatività di fortuna e sfortuna, ricorda la parabola dei due contadini dai poderi confinanti, uno che smarrisce la vacca più bella della stalla e l'altro che gli fa pesare la disgrazia, ma il primo dopo qualche giorno ritrova la mucca nel bosco e con lei un cavallo, la sfortuna ha generato una fortuna, e i due vanno avanti all'infinito tra miserie e ricchezze, figli strappati dalle guerre e affetti riguadagnati, carezze e rovesci della sorte, perdendo la misura dei destini paralleli.

"Prendi la cosa peggiore che può succedere a un allenatore: il licenziamento. Spesso l'esonero è un bene, ti permette di guardarti dentro per capire se e dove hai sbagliato. Puoi imparare a sdrammatizzare. Quando Zamparini mi cacciò dal Venezia alla quarta giornata di campionato, mi spaccai la testa per settimane. Che faccio? Adesso che faccio? mi ripetevo ossessivamente. Fino a quando un giorno ho cominciato a giocare a golf". La casa di Cesare Prandelli è in via della Torre del Gallo, sopra Firenze, un po' di verde e di vento, tanto cielo. Sulla soglia si sta accomiatando qualcuno della Fiorentina. È passato a dargli le ultime notizie. Due giocatori si sono separati dalla moglie, uno di loro vuole fargli sapere di avergli lasciato una lettera al bar, l'uomo gli dice che gliela porterà. Al piano terra un tapis roulant, molti libri, nessuno di calcio, cataloghi d'arte, quadri moderni ai muri, una piccola scrivania con un computer portatile, un tavolo da lavoro degli anni Cinquanta con lo stantuffo della morsa di legno, fotografie della moglie Manuela che non c'è più, un gagliardetto della Nazionale. Prepara il caffè, dopo che lo abbiamo bevuto risciacqua le tazzine. "È la solitudine che mi fa essere ordinato", dice.

Bisogna cancellare anche le tracce della nostra presenza per ingannarla. Il figlio Nicolò si è sposato e lavora a Parma, la figlia Carolina rimarrà un anno in Inghilterra per motivi di studio. "L'allenatore è sempre solo. Fino a quando non si confronta con la squadra. Non posso dire di avere amici tra i colleghi, ho frequentato a lungo solo chi ha fatto il corso con me a Coverciano: Colomba, Sandreani, Novellino". Questo è un mestiere che si inizia a indossare quando se ne pratica ancora un altro. Per lui cominciò nell'ultima stagione alla Juventus e nell'autunno della carriera a Bergamo. "Mi accorsi che avevo smesso di guardare la partita con l'occhio piccolo del giocatore, con il narcisismo di chi crede di recitare uno spettacolo privato. Nei ritiri i ragazzi bussavano alla mia camera, mi chiedevano consigli. Non ero un campione, cercavo di farmi apprezzare per qualcos'altro. Sotto la maglia di calciatore ho cominciato a sentirmene un'altra".

Nell'Atalanta un ginocchio lo abbandona, si fa operare ma i medici gli consigliano di smettere se non vuole rischiare di rimanere zoppo. "Ho trentadue anni, dico a Emiliano Mondonico: vado a Orzinuovi e mi cerco una squadra di bambini, mi piacerebbe insegnare calcio. Lui mi fa: aspetta, parlo io con il presidente. Cesare Bortolotti mi propone di restare, c'è un posto nelle giovanili. Morirà dieci giorni dopo, durante i campionati mondiali del '90. Faccio appena in tempo a dirgli grazie". Sono tre mesi che Prandelli si domanda che cosa può fare per l'Italia. "Non ho una risposta, rifletto su come sia stato possibile che una squadra campione del mondo non sia riuscita a farsi amare e sia andata in giro a prendere fischi. Se i tempi non cambiano, dobbiamo provare a cambiarli noi. Forse bisogna tornare alla semplicità. Mi piace il paragone con il lavoro dell'artigiano, il falegname che torna a usare il talento delle mani e che sa di non potere costruire un letto in un giorno. Stiamo annegando nel calcio dei paradossi. Ci sono autisti che in due mesi diventano dirigenti o procuratori, buoni calciatori che dopo un colpo di tacco vengono celebrati come campionissimi e si fa fatica a convincerli che si è trattato di un episodio, genitori che abdicano al loro ruolo, presidenti che promettono di puntare tutto sui giovani salvo poi farli fuori dopo due sconfitte perché in realtà ciò che vogliono è il risultato e lo vogliono subito, anzi, se esiste una scorciatoia da qualche parte sono già lì che prendono la rincorsa. Questo è il paese delle scorciatoie. Io predico ai miei giocatori: non tutto vi è dovuto, dimostratemi che sapete essere generosi e curiosi. L'altro porta dentro di sé una cultura, avere l'umiltà di volerlo conoscere ci arricchisce".

La semplicità è la lente di ingrandimento attraverso la quale guarda la sua professione. "Il calcio è semplice, forse geometrico, per dirla con Zeman. Nello sviluppo del gioco non esistono schemi. Gli schemi si applicano soltanto su palle inattive. Dopo l'Olanda di Cruijff, fu rivoluzionaria l'Italia dell'82 in Spagna. Bearzot giocava con due punte, due mezze punte e due esterni offensivi. Scirea era un centrocampista aggiunto, Cabrini un attaccante di fascia. Sacchi ha portato l'organizzazione al potere. Giocava già il martedì la partita della domenica, spostando la squadra in avanti di trenta metri creava un effetto sorpresa che schiacciava l'avversario nella sua metà campo. Zeman ha insegnato agli allenatori italiani come si attacca, è stato un maestro straordinario della fase offensiva, uno che continua a essere studiato. Mourinho è un talento nel prendere la testa del gruppo, costringe Eto'o a fare il terzino, sposta Cambiasso stopper, manda in panchina Maicon e Stankovic eppure tutti lo amano e lo temono come fosse Alessandro Magno o Napoleone. Oggi le squadre sono organizzate. Non c'è più nulla da inventare, ci hanno provato solo i tedeschi in Sudafrica con un 4-2-3-1 senza punti di riferimento. La differenza la fanno la velocità di esecuzione, cioè pensare in anticipo il passaggio, il possesso palla e le qualità tecniche dei giocatori. Ormai esistono soltanto due tipi di allenatori: quello che sa far crescere i giovani, come Wenger e Guardiola, e quello che sa gestire i fuoriclasse. Senza campioni l'allenatore conta poco e non vince più, basta pensare alla Spagna che ha conquistato Europei e Mondiali con due tecnici diversi. E all'Inter, di gran lunga la favorita del campionato che sta per iniziare, nonostante l'arrivo di Adriano alla Roma e la rinnovata Juventus di Del Neri che farà bene perché è un martello e ha il coraggio di dire in conferenza stampa: Del Piero sta fuori. Ecco perché dobbiamo costruire nuovi talenti".

Mi racconta di quando allenava i giovani dell'Atalanta. Avevano abolito le classifiche, ogni quaranta giorni ai ragazzi venivano controllati i risultati scolastici e chi aveva brutti voti era escluso dalle convocazioni. "Mino Favini era il responsabile del settore giovanile. Chiamava me, Vavassori, Gustinetti e Finardi e ci raccomandava di non frenare mai l'abilità dei giocatori, di non modificare le loro caratteristiche più istintive, anche quando le ritenevamo un limite, un'incompletezza. C'era, per esempio, Thomas Locatelli che faceva tutto con il mancino. E Mino che ci ripeteva: lasciatelo in pace, si diverte, avrà tempo per usare anche il destro. A Bergamo ho imparato che vincere è importante, ma che il vero piacere fisico lo provo quando dalla panchina vedo la mia squadra stare in campo con l'idea che ho cercato di cucirle addosso e tutti hanno i tempi di gioco giusti, non solo i tempi per se stessi. E mi dico, felice: questa è una squadra".

Cesare Prandelli ha frequentato due università. È stato due anni a Coverciano con Franco Ferrari, il professore, un maestro di tecnica e tattica. Sei a Torino, nella Juventus di Trapattoni, Zoff, Scirea, Tardelli, Causio, Furino, Bettega, Platini, Rossi, Boniek. Una squadra dallo spirito militare, unita nella divisione, spietata anche al suo interno. Nello spogliatoio si fronteggiavano due gruppi, quello di Furino e quello di Bettega. Arrivò Platini, soffrì sei mesi, li decapitò entrambi e prese il comando. Boniperti piombava agli allenamenti e scriveva con il gesso i nomi di tre giornalisti sulla lavagna: "Con questi non dovete parlare". Nessuno sgarrava. All'uscita del campo gli ultimi arrivati chiedevano le generalità all'intervistatore che gli si parava di fronte e se era uno di quei tre scappavano via in un amen. Alla faccia dello stile Juve. "Ogni settimana organizzavamo una cena in qualche ristorante della collina. Era un nostro desiderio, ci svagavamo, si imparava a conoscersi. Dividevamo il conto, nulla era gratis. Se qualcuno beveva tre bicchieri di vino in più, gli altri lo fermavano. Stare assieme costituiva la forza di quella squadra, anche se non posso dire vi fosse amicizia vera, se non tra Zoff e Scirea. Gay era una persona di intelligenza e bontà rare, non ha mai pronunciato un giudizio cattivo su un compagno o un avversario. Dino era taciturno, ricordo di averlo sentito parlare solo due volte nello spogliatoio, ma in quelle due occasioni tutti gli altri si sono zittiti e hanno abbassato la testa sugli scarpini". Balotelli e Cassano, se vogliono, intendano.

"Con Cassano non ho mai litigato, gli va tolto il marchio che si è messo sulla pelle. Per Balotelli vale la regola Favini: lasciamolo divertire, per ora, e che faccia i suoi numeri da giocoliere. Il tempo contiene sempre la verità. Penso a Pazzini, sono assolutamente certo di non avere sbagliato con lui. A Firenze era troppo coccolato, non sarebbe mai cresciuto. Oggi, rispetto a venti, trent'anni fa, i giocatori sono più individualisti. Vivono barricati nel loro mondo e spesso quel mondo è malamente popolato. Li vedi uscire da una sconfitta sorridenti, come se non gliene fregasse nulla, eppure ci sono atteggiamenti di strafottenza che vanno interpretati nel loro esatto contrario, perché esprimono uno stato d'animo di disagio. Ho letto così il gesto degli azzurri più giovani ai mondiali, quelle foto scattate con i cellulari prima della partita decisiva con la Slovacchia. Mi è sembrato il sintomo di una difficoltà, di paura, una richiesta di aiuto. Il lavoro fuori campo di un allenatore è questo: cercare di prevenire i problemi, ascoltando anche i silenzi. Durante la settimana il giocatore ti trasmette sempre qualcosa, se lo capisci in ritardo, e a me è successo, sei fottuto".

Cesare Prandelli è un timido, come tutti i timidi è permaloso. Come tutti gli onesti, di una franchezza acuminata. Ha detto tre volte no alla Gea di Moggi, nel mestiere non fa il padre né l'amico, è gentile ma duro, la domenica dopo la partita non parla alla squadra per non correre il rischio di dire cose sgradevoli, lo fa il martedì, un "processo" di quasi un'ora sugli aspetti temperamentali e caratteriali. Non va a cena con i giocatori. "Sono professionisti super stipendiati. Devono assumersi le proprie responsabilità, se li assecondi tendono allo scaricabarile. Sono pronto ad ascoltare i loro problemi, come un genitore con i figli adulti. Ma c'è un momento in cui devono tirare fuori l'anima. Devono andare avanti. Da soli. Non possono girarsi, non possono guardarmi. Se lo fanno sono pronto a dir loro, anche con violenza: adesso basta. Lo dovremmo fare di più".


Grazie Signor Prandelli, spero un giorno di conoscerla.

13 commenti:

Unknown ha detto...

Un allenatore, o un commissario tecnico, sono soprattutto gestori di risorse umane, nel contesto di gruppi organizzati composti da atleti, tecnici, e altre figure professionali di varia natura e competenza.
Al di là dell'ovvia logica dei risultati agonistici, dunque, il principale obiettivo che devono perseguire, nonché la propria maggiore qualità professionale, consistono nella capacità di attivare un processo di condivisione, sfruttare al meglio le potenzialità dei singoli, far sentire tutti parte attiva di un percorso comune e, infine, fare in modo di concedere adeguate gratificazioni a tutti.
Per 'adeguate gratificazioni' non intendo certo solo i soldi, ma quel qualcosa che rappresenta la 'molla' di chiunque si dedichi a un lavoro che - soprattutto negli sport 'poveri' come la scherma - presuppone in buona parte una grande passione.
Per qualcuno, insomma, la gratificazione può essere una semplice pacca sulla spalla data al momento giusto e, casomai, accompagnata da un 'grazie', per qualcun altro può essere viceversa un reale coinvolgimento in determinati processi decisionali: farlo sentire una 'mente pensante', insomma, e non solo l'insignificante granello di un ingranaggio.
Non ci sono linee-guida, perciò, non c'è una regola univoca e standardizzabile, valida per tutti i contesti e le situazioni, ma in linea generale un buon allenatore sa capire tutte queste dinamiche, e cavalcarle in modo creativo, sensibile e intelligente, al fine di costruire un gruppo che funzioni.
Pur nel rispetto dei vari ruoli, poi, e di una logica di meritocrazia, il coach intelligente ha in primo luogo l'obbligo di un'assoluta equità, al fine di non causare sperequazioni tra i vari componenti della squadra e dello staff: la gente, infatti, non è disposta ad accettare che qualcuno che non lo meriti sia premiato o gratificato da una particolare attenzione, o addirittura riconoscenza, solo in virtù di simpatie personali o di opportunismi.
Ci vuole equilibrio e onestà, insomma, anche nella gestione delle dinamiche di 'potere', ovvero: rispetto degli esseri umani, ed estrema puntualità nel dedicare a tutti i componenti del gruppo l'attenzione che è ad essi dovuta.

Unknown ha detto...

Cosa rischia un allenatore se sbaglia o commette imprecisioni in questo tipo di operazione?

Che una o più persone insoddisfatte, in misura della propria intelligenza e delle proprie qualità comincino a remargli contro, insinuandosi in modo cancerogeno all'interno del gruppo, sfaldandolo, disaggregandolo, e causando alla fine una flessione nei risultati che si ritorce contro il 'coach' stesso.

Io lavoro da tempo immemorabile nella scherma, e ho collaborato con tutti i commissari tecnici degli ultimi decenni, da Fini a quelli attuali.
Beh, pur non generalizzando, devo dire che uno dei principali problemi di questa disciplina è rappresentato proprio dalle eccessive tensioni interne, determinate o acuite dalla difficoltà che i CT incontrano spesso nel gestire atleti, maestri, membri dello staff - e ci aggiungerei anche dirigenti di vario livello e familiari - in modo equilibrato e rispettoso delle rispettive peculiarità ed esigenze.

La competitività dell'ambiente è ovviamente esasperata, ed è alla base di molte criticità relazionali, ma talora ho visto tecnici continuare a operare in virtù di pure dinamiche di potere, ignorando bellamente una serie di problematiche evidenti, le quali puntualmente sono esplose nei modi più svariati dopo qualche tempo.

In altri termini, sono convinto che l'arroganza di potere non venga mai perdonata da chi è costretto a subirla, in qualsiasi ambito, e porti invariabilmente a una brutta fine chi la eserciti: basti pensare ai disastri cui sono andati incontro certi uomini politici o dittatori nella storia dell'umanità.

Volendo concludere con delle considerazioni costruttive, secondo me nella scherma si dovrebbe definire in modo più chiaro:

a) il ruolo del cosidetto 'CT' ma, in particolare, gli obiettivi che gli vengono richiesti (solo medaglie olimpiche o anche una crescita tecnica globale del settore, ad esempio?) in funzione di una valutazione obiettiva del suo operato e di una decisione corretta in merito al suo futuro.

b) Le modalità operative da utlizzare al fine di realizzare gli obiettivi programmati.
CT 'selezionatore' puro, insomma, o CT 'allenatore' a tutti gli effetti, che suda in pedana con gli atleti come qualsiasi allenatore vero?
Ora come ora, si continua a considerare il 'modello-Fini', cioè quello del manager-selezionatore, come il più adeguato alle nostre esigenze tecnico-organizzative, e pochissimi secondo me hanno provato effettivamente a realizzare un modello completamente diverso.

b) il curriculum indispensabile al fine di diventare CT: nella mia esperienza, ho visto accedere a questo ruolo ex-arbitri, maestri puri, ex-campioni, e perfino ex-atleti di modesta levatura, privi peraltro una particolare esperienza magistrale.
E' chiaro che si tratta in ogni caso di esperti, ma a mio avviso c'è parecchia confusione in merito a quelli che dovrebbero essere i requisiti indispensabii - sotto il profilo della formazione professionale e delle esperienze significative maturate in carriera - al fine di svolgere un lavoro complesso ma così ben pagato, molto gratificante e tutto sommato divertente.

Non parliamo di 'stress' degli allenatori, insomma, e manteniamo i piedi per terra.
Non dimentichiamo, infatti, che ci sono fior di giovani laureati che dopo anni di studi si sbattono per 1000 euro al mese, con incarichi provvisori e 'cococo', solo al fine di sopravvivere.
Non possono comprare una casa, non possono sposarsi, non possono mettere su famiglia, non possono fare vacanze né godersi dei bei viaggi, non hanno alcun futuro brillante né alcuna seria prospettiva davanti a loro.

Unknown ha detto...

A Prandelli, perciò, e a tutti coloro i quali hanno la straordinaria fortuna di guadagnare più che bene - ai limiti dell'arricchimento - occupandosi di sport, vorrei ricordare che tutto sommato sono dei beneficiati dalla sorte e dei privilegiati della società.

Un allenatore di calcio di serie A - il cui titolo di studio spesso non va al di là di un onesto diploma di istituto tecnico - percepisce in un anno almeno cinque volte quanto, salvo eccezioni, un primario ospedaliero, un magistrato, un dirigente pubblico, un giornalista, guadagnano al culmine di carriere decennali, contrassegnate da responsabilità spesso pesantissime.

E non voglio nemmeno immaginare quanto guadagni in più rispetto a un cosidetto 'lavoratore della massa', come un impiegato o un operaio.

Il calcio, e lo sport in genere, dovrebbero rapportarsi più spesso alla realtà della società in cui sono collocati.

Antonio Fiore

Andrea Magro ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Andrea Magro ha detto...

Ciao Antonio...meravigliose le tue risposte...sei un fiume in piena; fermo restando che il mio GRAZIE al Signor Prandelli era il relazione all`intervista inerente alle problematiche che lui vive e che si ritrova a dover gestire nel suo mondo, il calcio.Ho avuto il piacere di lavorare in quel mondo per un po` di mesi e ho vissuto esperienze molto importanti che mi hanno portato a ringraziarlo perche` condivido le cose che dice.Non sono cosi` sciocco e superficiale nel non sapere che chi vive di sport e` un "privilegiato" rispetto ad altre professionalita` che sono figlie di anni e anni di duro studio, di duro lavoro e di dura gavetta Decine sono i lavori ben piu` importanti nel nostro mondo , ma questa societa` li sta ...tradendo!!!!Sarebbe bello e giusto che fossero piu` riconosciuti.Proprio in questi giorni ho avuto il piacere di "discutere" con la Dottoressa che mi ha operato alla quale ho detto una infinita` di volte grazie, fino al punto che Lei mi ha detto...basta.....e` il mio lavoro!!!Le ho risposto che la parola GRAZIE e` una delle piu` semplici al mondo ma una delle piu` belle e che andrebbe usata ed apprezzata di piu`...quindi con me sfondi una porta aperta.Ma so che tu ti riferisci al nostro rapporto e all`accusa che mi hai sempre fatto e che ha portato a deteriorare il nostro rapporto...quello di non averti mai coinvolto e di non averti mai detto grazie!!Io,come ben sai, non sono concorde con questa tua tesi e spero una volta per tutte di chiarirla a 4 occhi a Parigi; penso che si sia trattato sopratutto di uno scontro, incontro di personalita` dove ognuno di noi, probabilmente , non e` riuscito a trovare il modo migliore per relazionarsi dal punto di vista umano.Sulla tua analisi del ruolo del ct in italia ,sulla quale abbiamo discusso molte volte,penso che sia uno dei problemi generali dello sport italiano.Io posso parlare solo della mia esperienza e del mio vissuto, nonostante abbia potuto osservare l`inserimento e il lavoro di tanti miei colleghi...come dici tu c`e` un po` di tutto....maestri, ex collaboratori del precedente ct, ex atleti ex arbitri...insomma chi piu` ne ha piu` ne metta....io ho avuto la fortuna ,prima di essere nominato responsabile del fioretto femminile, di fare il Maestro a Udine, il collaboratore di Fini per 2 stagioni e l`arbitro di scherma.Credo che negli anni il modello Fini sia cambiato e si sia sviluppato anche perche` il mondo della scherma e` notevolmente cambiato!!!Per quanto riguarda le tensioni interne "classiche" del mondo della scherma.....beh...potrei scrivere un libro(dove dedicherei almeno due capitoli al sottoscritto....)solo se sapessi scrivere come scrivi tu!!!E` un po` che te lo dovevo dire, devo farti i miei complimenti sei proprio bravo nello scrivere!!!Io ,come ben sai,non sono molto portato nella scrittura e faccio un po` fatica a "disegnare" i miei pensieri e le mie emozioni...preferisco parlarne!!!Come sempre hai messo sul tavolo un sacco di punti interessanti, di quelli sui quali mi piace discutere....ma una sera, se avrai tempo, ci facciamo 2chiacchere e per esempio ti racconto la mia esperienza in Giappone dove sono passato dal ruolo di ct italiano e quindi diciamo principalmente selezionatore, a quello giapponese quindi principalmente allenatore.A presto "romanziere"!!!!Ciaooo

Unknown ha detto...

Andrea,
quest'anno, in novembre, festeggerò trent'anni esatti di attività.
Beh, se dovessi stilare un bilancio, sarebbe senz'altro positivo sul piano di ciò che sono riuscito a realizzare professionalmente.
Mi riferisco non tanto alle cariche, che pure fanno piacere, quanto ai cambiamenti che sono riuscito a indurre - in molti casi in virtù unicamente della mia cocciuta tenacia abruzzese - in un ambiente assai poco recettivo alle novità.

Quando entrai nella scherma il medico era poco più che un 'giullare di corte', un tizio da chiamare con un fischio solo in caso di necessità, mentre ora è un professionista la cui utilità è in linea generale abbastanza riconosciuta, fatta eccezione per la singolare tendenza a considerare il supporto medico la prima spesa non indispensabile al momento in cui c'è da stringere la cinghia.
Chissà perché, insomma, in certi casi la salute viene considerata un bene superfluo, e in ogni caso la sua tutela si preferisce spesso delegarla al fisioterapista: un professionista la cui importanza è straordinaria, ma i cui limiti operativi sono chiari, se non altro per i vincoli di legge che concedono solo ai laureati in medicina la facoltà di somministrare farmaci.

Lo specialista in Medicina dello Sport, poi, non è solo colui che si occupa del 'pronto soccorso' e dell'assistenza medica in senso stretto (come ancora ritiene la maggioranza degli addetti ai lavori meno acculturati), ma anche un professionista in grado di interagire con tecnici, preparatori, fisioterapisti, al fine di ottimizzare l'allenamento dell'atleta, ma anche di studiarne i parametri funzionali e biomeccanici, e di metterne a punto la programmazione negli anni.
E' un professionista, infine, il cui lavoro - se svolto bene - assume una fondamentale importanza non tanto nella terapia, quanto nella prevenzione degli infortuni e nel miglioramento delle prestazioni psicofisiche dell'atleta: obiettivi realizzati soprattutto mediante il supporto di una corretta alimentazione e la definizione di uno stile di vita ottimale.

In tal senso, sai benissimo come in una certa fase della nostra collaborazione siamo riusciti, con l'ausilio dei maestri, dei preparatori e, soprattutto, del 'grande' fisioterapista Stefano Vandini, a mettere in pedana ai Giochi schermitori oramai logori o comunque reduci da problemi assai seri, gestendone la preparazione in modo certosino, al fine di non aumentare il rischio di infortuni e patologie varie.

Unknown ha detto...

Ciò premesso, dato che mi sono occupato dell'assistenza medica negli ultimi cinque cicli olimpici (credo che sia un record assoluto), e sono stato presente nelle ultime quattro edizioni dei Giochi, rivendico ciò che mi è dovuto e cui ritengo di avere diritto: la giusta considerazione dell'importanza del mio lavoro e del mio apporto in una serie di competizioni nelle quali la scherma italiana ha conquistato una massa fantastica di medaglie.
Credo che si debba riflettere sulla possibilità che si sia trattato solo di un caso, insomma, se 'dietro le quinte' di tutte le manifestazioni in cui sono piovuti gli allori azzurri, dal 1988 a oggi, ci sia un nome che ricorra costantemente, un comune denominatore.

In altri termini, lo ribadisco anche in questa sede: si può essere dei fuoriclasse allenati in modo perfetto, ma se quel giorno fatidico, per il quale lavori da anni, al momento di scendere in pedana non stai bene - anche per una stronzata come una banale cefalea - la medaglia te la sogni.

E ad essere onesti, in tutte le innumerevoli edizioni di Europei, Mondiali, Olimpiadi cui ho partecipato, ho perso il conto di tutte le volte in cui sono intervenuto d'urgenza per risolvere situazioni talora molto delicate: difficili al punto che gli stessi diretti interessati non se ne sono resi conto, o se ne sono dimenticati troppo in fretta, o non sono disposti, purtroppo, a ricordarsene.
Forse, proprio per non dover dire un 'grazie'.

E in effetti nessun atleta - tranne casi talmente eccezionali da contarsi sulle dita di una sola mano - mi ha mai ringraziato per ciò che ho fatto per lui.

Tutto dovuto, dunque, tutto normale, tutta ordinaria amministrazione, e nessun merito particolare.

Attualmente, ad esempio, il mio cruccio maggiore, nonché una delusioni maggiori della mia vita, è rappresentato dall'atteggiamento di un grande atleta il quale - invece di serbare riconoscenza nei miei confronti per tutto ciò che ho fatto per lui, sbattendomi come un pazzo per aiutarlo in una situazione talmente intricata da apparire senza via di uscita - da un po' nemmeno mi saluta: chissà perché.

Questa è una beffa amara che la sorte mi ha riservato, e che mi fa chiedere se tutto ciò cui ho dedicato gli anni migliori della mia vita abbia avuto realmente un senso.

Unknown ha detto...

Non vorrei essere apparso pretenzioso o eccessivo, ma la necessità di rivendicare, perfino in modo provocatorio quando serve, il significato e la valenza di un lavoro svolto con dedizione in ambito sportivo per tanti anni, nasce anche dalla constatazione piuttosto deprimente di essere di fatto considerati da molti degli addetti ai lavori ai margini estremi di un mondo che in qualche modo considera tuttora i medici sportivi niente di più che comprimari di lusso: spesso utili, talora indispensabili (sebbene non per tutti), ma in ogni caso estranei all'organizzazione e alla nomenklatura sportive e, soprattutto, senza 'diritto di parola', tranne casi eccezionali.

Inutile sottolineare, infine, come chi svolga la mia professione sia rassegnato - quasi costretto a dire il vero - ad accontentarsi essenzialmente di riconoscimenti morali, che comunque sono rarissimi, anche perché sarebbe un folle se cercasse gratificazioni economiche, giacché nel mondo dello sport tali soddisfazioni non sono certo riservate ai medici sportivi: i quali, voglio ricordarlo per coloro che non sono addentro alla materia, sono fino a prova contraria tra i pochi veri e propri 'professionisti di sport' operanti nel mondo delle federazioni.
Professionisti, tanto per intenderci, con tanto di laurea di sei anni e di specializzazione di quattro (dal prossimo anno di cinque), cui peraltro la famosa Legge Melandri non conferisce alcuna 'quota' né alcuna forma di rappresentanza all'interno dei consigli federali.

Per molti, insomma, il medico sportivo è tuttora, e dovrebbe rimanere in futuro, niente di diverso da quel signore più o meno simpatico, seduto ai bordi del campo o della sala, da chiamare con un fischio quando qualcuno dice 'ahi' in pedana, e da rispedire sulla sedia con una certa solerzia appena ha concluso il proprio intervento: quello che 'non fa un cazzo' tutto il giorno, insomma, e 'tocca pure pagarlo'.

Un saluto a tutti i lettori.
Antonio Fiore

Andrea Magro ha detto...

Caro Antonio, quando mi sono soffermato sulla parola grazie non l`ho fatto a caso, tu sai che io mi sono sempre sentito arricchito dell`uso di quella parola e non ho mai fatto fatica a farne uso,sicuramente a qualcuno mi sono dimenticato di dirrlo, ma chi non sbaglia!!!Ma ti assicuro che ti capisco, anch`io nel mio piccolo credo di aver dato qualcosa di me stesso a maestri,atleti, ,medici, fisioterapisti,preparatori, tecnici delle armi, dirigenti ecc, ecc e ti assicuro che molti di questi dopo 15 anni di lavoro assieme non a
hanno sentito minimamente il bisogno di ringraziare....cosa puoi farci...nulla !!!Io mi sono tenuto stretto il valore delle persone che hanno avuto il piacere, la voglia e il desiderio di comunicarmi il loro ringraziamento per gli altri.....pazienza!!!!Non siamo tutti uguali, ci sono persone che vivono le cose in maniera diversa, io ho trovato dentro di me alcune risposte e queste mi hanno dato grande forza e serenita`....credo che coloro che non riescono a dire grazie, credo che coloro che non conoscono il valore e il significato della parola grazie siano degli infelici, non godono e non potranno mai godere delle cose che gli ruotano attorno!!Affari loro...sono e resteranno dei poveri!!!Su con la vita Antonio e cerco dentro di te il valore di cio` che sai fare...questo e` il miglior grazie che puoi ricevere!!!
Mandi

papagai ha detto...

Ciao Andrea,
ho letto con molto piacere e molta attenzione l'articolo che hai scelto e il dibattito seguente. Non ho molto da dire ai singoli spunti di questi interventi, ma vorrei solamente dirti che spero tanto che la federazione giapponese riesca a comprendere meglio il tuo impegno e la passione per questo bellissimo sport, che condivido pienamente.
A tra poco! Sara' un'altra giornata caldissima...

Andrea Magro ha detto...

Ciao Papagai, grazie del pensiero!!

stefanosbragia ha detto...

salve maestro come va???tutto bene in giappone?tanti saluti stafano sbragia

stefanosbragia ha detto...

*stefano :-)