sabato 30 agosto 2014

30 agosto 2014

Il Storico dell’arte a Los Angeles. “Volo negli Usa perché in Italia ci siamo arresi”
Da Il FAtto Quotidiano
Los Angeles Times ha dato grande risalto alla notizia che il Getty Museum ha scelto un italiano per uno dei suoi ruoli più importanti, quello di Responsabile delle collezioni di pittura. E la notizia dovrebbe interessare molto anche i nostri giornali, perché quell’italiano è lo storico dell’arte Davide Gasparotto, nato nel 1965, perfezionatosi alla Normale di Pisa, da 15 anni esemplare funzionario di ruolo nelle soprintendenze e oggi affermato studioso e brillante direttore della Galleria Estense diModena. Si tratta di una “fuga di cervello” non dettata dalla mancanza di lavoro, ma dalla ricerca di condizioni migliori per realizzare il proprio lavoro: una scelta che dovrebbe far suonare tutti i possibili campanelli d’allarme per l’opinione pubblica e per i vertici dei Beni culturali. Ed è proprio per questo che è importante ascoltare le ragioni di Gasparotto.
Cosa vuol dire lasciare l’Italia, per uno storico dell’arte?
Non è facile. Significa lasciare una delle cose più importanti: la possibilità di vivere immersi nel tessuto connettivo che riunisce le opere al territorio, i documenti ai monumenti, i monumenti al paesaggio. Solo qua si capisce fino in fondo il senso delle opere italiane di cui mi occuperò al Getty. E a Los Angeles non mi basterà uscire di casa per trovarmi immerso nella mia materia di studio.
Qual è stato il motivo decisivo che ha comunque condotto a questa scelta? E come è diverso il mestiere di conservatore negli Stati Uniti?
È stato fondamentale ciò che in Italia non posso avere: e cioè la possibilità e la certezza di concepire, sviluppare e portare a compimento un progetto. Con tutto il necessario supporto economico, e di professionalità e saperi, da parte dell’istituzione. Il mestiere è lo stesso: si tratta di curare, conservare, esporre e far conoscere la collezione. Una collezione – ma questa è, invece, una differenza fondamentale – che andrà anche ampliata con acquisti, e cioè costruita: una grande sfida.
Quanto ha contato il vergognoso stipendio dei funzionari italiani?
Relativamente poco: tolte le grandi spese per le assicurazioni sanitarie e sociali, e quelle per la casa, il mio tenore di vita non sarà straordinariamente superiore a quello attuale.
Cosa bisognerebbe cambiare nel modello italiano di tutela?
È un modello glorioso, che però è stato reso troppo bizantino e ingessato. Un modello che deresponsabilizza e demotiva: ci vorrebbe una maggiore autonomia per tutte le strutture, ma collegata a una responsabilità vera. Con premi e avanzamenti di carriera veri per chi fa bene, e veri sbarramenti e vere censure per chi fa danni. Dei quali oggi non c’è la minima traccia.
La riorganizzazione del ministero proposta dal ministro Franceschini va nella direzione giusta?
Non sono tra i contrari, ma ho qualche dubbio. Separare il museo dal territorio presenta alcuni rischi, e una volta deciso di correrli si sarebbe potuto, e forse dovuto, andare fino in fondo. Il grande problema dei musei italiani è che il direttore non conta niente: se deve restaurare un quadro, o concederlo in prestito, deve chiedere l’autorizzazione al suo capo, il soprintendente. E questo la riforma non ha avuto il coraggio di cambiarlo. Se i musei saranno diretti da storici dell’arte (come accade in America e come dovrà continuare ad accadere anche qua), allora devono avere una vera sovranità anche per la tutela.
A quali condizioni tornerebbe in Italia?
A due condizioni. La prima è che si torni a investire nelle risorse umane per i beni culturali. Cosa che nessuna riforma ha fatto, e nemmeno questa fa. Lascio colleghi spesso di straordinaria professionalità, ma anche straordinariamente frustrati da un’amministrazione incapace di valorizzare il suo più importante capitale. E la seconda condizione sarebbe che la primaria funzione del patrimonio culturale torni a essere la ricerca e l’educazione. Come accade ai musei americani, e come da troppo tempo non accade più da noi. Il fine statutario del museo Getty è fare research and education (ricerca ed educazione). Noi l’abbiamo dimenticato.

giovedì 28 agosto 2014

29 agosto 2014

Ciao amici, ieri abbiamo iniziato l'allenamento di preparazione fisica e lezioni con il quale iniziamo la stagione 2014/15, la stagione che ci portera' ai campionati mondiali di Mosca , ma sopratutto all'inizio della qualificazione olimpica. Quindici ragazze hanno risposto alla convocazione e saranno guidate dal prep. fisico Daniel Herold  , per quanto riguarda le lezioni il Maestro Cappelletto e la Maestra Gambos lavoreranno con me per curare la parte schermistica.
Ciao

domenica 24 agosto 2014

24 agosto 2014

Ciao amici, un saluto da Pignano, domani mattina rientro a Tauber, sono finite le vacanze. Il 28 riprenderemo gli allenamenti con un ritiro improntato sul lavoro fisico e sulle lezioni. Sono molto contento di riprendere il mio lavoro.
Mandi

sabato 23 agosto 2014

23 agosto 2014

PER LE RIFORME CI VUOLE  ONESTA'

Di Ermanno Olmi

C'e' un articolo che non e' stato scritto alle origini della nostra Costituzione: non per dimenticanza, ma perche' era gia' radicato in ciascuno dei padri costituenti.
Costoro avevano l'onesta' come primo comandamento. E con quel puntiglio hanno scritto tutti gli altri articoli.
Oggi e' sceso il buio della indifferenza e della rinuncia alla propria dignita'. Solo pochi sentono il dovere di tenere acceso il lumicino di una coscienza civile.
Abbiamo appena trascorso tutta l'estate con la riforma del Senato. Per tutte le altre riforme, che si faccia almeno in modo di tener presente una raccomandazione di Albert Camus: " Perche' un pensiero  cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che l'esprime. Che cambi in esempio".

23 agosto 2014


Riforme, Zagrebelsky: “La finanza comanda i governi, compreso il nostro”

Il presidente emerito della Corte costituzionale: "Sarebbe auspicabile un intervento formale di Napolitano" che ricordi come "i principi fondamentali (della Costituzione, ndr) non si possono cancellare o calpestare". E sull'Italicum: "Mi sorprende la spudoratezza con cui i partiti trattano la legge elettorale come fosse cosa loro. Sembra che reputino gli elettori materia inerte nelle loro mani"

Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello diLibertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazarenoper il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato “La Costituzione e il governo stile executive”, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.
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Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?
Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.
E’ un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.
Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista. Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa.
Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.
Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.
Non è poi una grande novità.
La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.
Per esempio?
Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.
Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.
Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme.
Quali puntini?
Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.
Unendo questi puntini che figura viene fuori?
E’ un bell’esercizio per i nostri lettori…
Intanto lo faccia lei per aiutarci.
L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.
Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.
Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.
Iniziamo dal nuovo Senato.
Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?
Ma sì, citiamolo.
Foucault parlava di ‘governa-mentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. E’ molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.
Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.
Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro…
Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.
Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose…
Giusto dunque riformare un’altra volta il Titolo V?
La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo ri-accentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?
Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.
Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.
Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.
Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm, ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.
Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.
Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato?
Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.
Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.
Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.
Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.
Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.
Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum, Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.
Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.
In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.
Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.
Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa… E rimango legato a principi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.
Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.
Quali?
La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.
Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.
Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.
Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.
Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.
Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.
Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governa-mentalità’ di cui dicevamo.
Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto.
Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità.
In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era.
da Il Fatto Quotidiano del 22 agosto 2014

mercoledì 13 agosto 2014

13 agosto 2014

Quanto mi piacerebbe poterla conoscere e stringerle la mano, grazie per tutto quello che fa Sig Zeman per la nostra derelitta cultura sportiva.


Da Il Fatto Quotidiano

Zeman sul ‘sistema’ calcio: “Tavecchio e Lotito? Non scendo fino a loro”

"Oggi come ieri mi pare che il principale obiettivo di chi governa il calcio sia il business e che i padroni del pallone si interessino poco al gioco". Il neollenatore del Cagliari sulla Figc: "Non ho sentito programmi reali e proposte per il domani". Le vicende dello stadio Olimpico? "I veri tifosi sono tanti e del signor Carogna non sanno nulla". L'allenatore della nazionale? "Non esiste. Conte non è adatto, ha bisogno del campo". Fallimento mundial: "Abbiamo risolto la questione del calcio dando la colpa a Balotelli, che dopo la prima partita sembrava Pelè"

Palme, vento caldo e ricordi: “Certo che ho nostalgia. Di tutte le cose belle del lavoro e della vita che sono svanite e degli angoli a Sud che ho dovuto lasciare. Peccato. So che la bellezza di ieri non si può riprodurre, ma ho a lungo sperato che la parte sana dello sport che abito da quasi mezzo secolo, quella incontrata al principio tra Palermo, Licata e Foggia, potesse evolvere e migliorare ulteriormente. Invece siamo riusciti solo a peggiorarlo il calcio. Peccato”. Dall’ex Cecoslovacchia – “Vivevo a Praga 4, nei pressi del ponte di ferro e la nostalgia, vale naturalmente anche per le origini” – a Cagliari il volo di Zeman è un’apertura d’ali che non conosce esilio. “Nel sistema mi sento solo, nella quotidianità no. La gente che come me non appartiene al sistema di potere mi apprezza e mi vuol bene. In Sardegna come a Roma. Sembra una sciocchezza, ma non lo è. L’affetto mi ripaga di ogni amarezza”. In maglietta rossa e pantaloni corti, Zeman corre incontro all’ennesima cattedra del suo insegnare contrastato con l’entusiasmo dell’età acerba. A un’ora di aereo, in un albergo a due passi dagli hangar di Fiumicino, i padroni del vapore hanno fatto girare le eliche nella direzione a loro congeniale. Dal rullare confuso di agosto è uscito l’ibrido profilo di Carlo Tavecchio ed è ancora alla parola “sistema” che Zeman torna per analizzare quel che gli pare lapalissiano: “È difficile cambiare il sistema calcio perché il sistema ha questi personaggi. Tavecchio è stato eletto perché ha l’appoggio di questi signori. Tutto qui, senza sorpresa”.
Non le pare una pessima notizia?Come glielo posso spiegare? Se c’è un sistema e non si cambiano le persone che formano quel sistema, il sistema sarà sempre identico a se stesso.
Forse gattopardescamente, si voleva cambiare guida perché non cambiasse nulla.Se si vuole rinnovare, si cambiano le persone. Altrimenti si va avanti così. È difficile che si cambi davvero orizzonte senza cambiare i personaggi, mi pare logico.
Sono andati avanti così. Restituendo un’idea padronale del pallone.La novità? Il calcio ha sempre rappresentato una casta a parte.
Se Zeman fosse stato un grande elettore avrebbe preferito Tavecchio o Albertini?Non posso giudicare, non ho elementi. Sono fuori da quel giro. Non conosco i programmi, cosa vogliano davvero fare o non fare. Il movimento non è abbastanza coeso e non c’è una linea comune. Oggi come ieri mi sembra che il principale obbiettivo di chi governa il gioco sia il business e che i padroni del pallone si interessino poco al calcio giocato.
Le dispiace? In fondo avrebbe potuto seguire il consiglio che Marcello Lippi le diede dieci anni fa, andare altrove: “Non si può criticare il sistema facendone parte”.
Se a uno non piace il mare in cui nuota, può sempre decidere di non bagnarsi in quell’acqua. Il discorso mi invitava a togliermi dai piedi e suonava più o meno così. Invece io sono rimasto nel calcio perché mi piace. Ho sempre cercato di fare qualcosa per migliorarlo, forse non abbastanza.
Pensa di aver commesso qualche errore?Non mi pento di nulla e non ho niente da farmi perdonare, ma sicuramente ho sbagliato anche io. Il dogma dell’infallibilità non l’ho mai coltivato.
Il sospetto è che a Roma, a margine dell’elezione di Tavecchio, sia andata in onda una vecchia replica dell’antico cabaret in cui non temiamo rivali.Sì, il sospetto c’è, ma ripeto: per me è difficile giudicare. Son due mesi che sento parlare di candidati, ma di programmi reali e proposte focalizzate su quel che bisognerà fare domani, non ne ho sentite.
Avrà però sentito la battuta di Tavecchio su Optì Poba e il ministro degli Interni discettare di Vu’ cumprà.Il razzismo è un’altra cosa. Significa odiare l’altra razza e né Tavecchio né Alfano odiano l’altra razza. Qualcuno ha evocato il razzismo, ma è un’etichetta che non mi convince. Un automatismo troppo facile. Se tifosi fischiano nero è razzismo, se tifosi fischiano bianco è normale. Qualcosa non torna. Io sono bianco, ma a Torino, per dire, sono stato trattato molto peggio di quanto non sia mai accaduto aBalotelli.
Con Torino e la Juventus i rapporti sono da sempre complicati.Non con la Juventus, di cui da ragazzo ero anche tifoso. Ma con alcuni dirigenti.
Molto prima di Moggi c’era Gianni Agnelli: “Zeman è il nipote di Vycpalek e dovrebbe esserci grato. Portandolo in Italia, noi abbiamo salvato Vycpalek dalla Cecoslovacchia comunista”.Una battuta modestissima, ma battute infelici prima o poi capitano a tutti, anche a Tavecchio. La Juve comunque non salvò proprio nessuno. All’epoca mio zio era considerato il più grande talento del calcio ceco. Quindi la Juve, semplicemente, comprò un giocatore. Un giocatore importante.
Torniamo alle ipotesi per salvare il calcio. L’abbiamo sentita parlare di modello francese, di vivai su base regionale. Altre proposte in tema?Il calcio italiano ha grandi tare. Soffrono i settori giovanili, manca la cultura del lavoro, domina l’ossessione per il risultato da raggiungere a qualsiasi costo.
Per lei la regola non vale.Per me vale l’unica regola a cui mi sia sempre appellato. Lavorare per far divertire il pubblico.
Ultimamente il pubblico pagante, tra lutti e sparatorie, non si è divertito granché.Allo stadio Olimpico, per la finale di Coppa Italia, c’ero anch’io. Ho visto tutto e come è ovvio, ho riflettuto.
Ci mette a parte del ragionamento?Non riesco a catalogare questa gente chiamandola “tifosi”. Non hanno interessi sulla partita giocata né sullo spettacolo, ma hanno molti altri seri problemi. Quello che non possono fare in mezzo alla strada, magicamente, diventa lecito allo stadio. Se lo fanno in mezzo alla strada pagano, invece in quella zona franca possono sfogarsi e fare di tutto perché ogni nefandezza gli è permessa.
Aveva ragione Capello? Il calcio italiano è in mano agli ultras?I veri tifosi sono altri e ce ne sono tanti. Tantissimi anche in quella sera di maggio all’Olimpico. Sessantamila persone che del signor Carogna non sapevano nulla e 150 individui che tenevano in ostaggio tutti gli altri. Cercare di eliminare quei 150 per dare al resto dello stadio la possibilità di godersi pienamente lo spettacolo è un problema non più rimandabile.
I tifosi pretendono liberta d’azione?Dichiarano impunemente: “La società sportiva siamo noi”.
Le sembra assurdo anche a livello identitario?Se lo pensi, fatti avanti. Compra i giocatori, paga l’ordinaria e anche la straordinaria amministrazione. Altrimenti si tratta di arbitrio. Di prepotenza .
Le società sono davvero impotenti e terrorizzate?Molte società si spaventano, sì. Ma l’antidoto alla violenza esiste. In Inghilterra volevano risolvere il problema e l’hanno risolto.
A Licata, trent’anni fa, di cosa aveva paura?Di niente. A quel tempo non c’erano problemi, specialmente di quel tipo. Era diverso il calcio. Diverso il mondo.
Si discute molto di nuovi stadi sicuri da costruire. Sul tema il Parlamento ha lavorato senza sosta.Il problema della modernità degli stadi italiani esiste, però quelli che ne parlano e si sono adoperati per far passare le leggi in Parlamento, mi pare guardino ad altri obbiettivi.
Quali, Zeman?Se non immaginano palazzi e supermercati da costruire intorno allo stadio non sono contenti.
Quindi?Quindi per me costruire nuovi stadi non è esigenza di calcio, visto che è esigenza di altra natura. Invece di edificarli da zero, si potrebbero aggiustare. Per tacere del fatto che a Roma, un posto per lo stadio migliore di quel che c’è adesso, non esiste.
Anche la Lazio vorrebbe una nuova casa. Che idea ha del calcio italiano Lotito, il grande elettore di Tavecchio?Non posso scendere fin lì, non voglio.
Cambiamo argomento. Tavecchio vorrebbe Antonio Conte allenatore della Nazionale.Il termine è sbagliato. Non esiste l’allenatore della Nazionale.
Come non esiste?Non esiste. Non c’è tempo per lavorare, convocare i giocatori, ridurre le proteste delle società. Conte è bravo, ma in quel ruolo non lo vedo.
Perché?Perché Conte è un allenatore. Ha bisogno del campo. Ha bisogno di urlare, di guardare in faccia i giocatori. Tutte cose che con i calendari attuali confinano con l’utopia.
L’identikit del successore di Prandelli, quindi?Uno che abbia un buon occhio per scegliere i giocatori che stanno bene in un dato momento e quelli funzionali al proprio modulo. Ciò che non è successo all’Italia in Brasile.
Spedizione disastrosa, concorda?Il problema del calcio italiano è ampio e l’eliminazione dal Mondiale è solo una parte del tutto. Se Prandelli avesse battuto la Costa Rica nessuno avrebbe detto niente.
Invece l’Italia ha perso.E noi abbiamo risolto la questione dando la colpa a Balotelli. Ora sembra che il Mondiale l’abbia perso lui e il sistema va avanti come sempre. Come se nulla fosse. Con il capro espiatorio di turno siamo abituati a fare così.
Così come, Zeman?Prima innalziamo un Dio sull’altare, poi lo sacrifichiamo. Dopo la prima partita Balotelli era trattato come Pelè. Al primo intoppo, giù bastonate. Siamo stati eliminati dal Mondiale perché Balotelli non si comporta bene? Cerchiamo di essere seri che è meglio.
A proposito. Pjanic sostiene che con lei si allenava senza gioia, piacere né divertimento.Io continuo a pensare che lo sport professionistico fa parte di quelle discipline in cui per ricevere soddisfazioni bisogna lavorare. Per molti giocatori invece, allenamenti ed esercizi sono parco dei giochi. E per la mia mentalità, parco dei giochi con professionismo ha poco a che fare.
Al prossimo incrocio con la Roma stringerà la mano a De Rossi?Non ho mai avuto un problema con De Rossi. Può essere accaduto il contrario e forse era lui ad avere qualche problema con me. Se non rendeva secondo le aspettative, comunque, non mi ritengo responsabile.
Ai tempi dei leggendari ritiri estivi del primo Zeman, a base di patate lesse, dieta ferrea e gradoni, i suoi calciatori non erano contenti.Chi mi ha seguito non se ne è mai pentito. Per un mio allenamento, in 40 anni, non è mai morto nessuno.
Le è mai accaduto che un giocatore si sia lamentato con lei? Che le abbia espresso sinceramente le proprie perplessità?In faccia nessuno mi ha mai detto niente, però mi dispiace che a volte accada dietro le spalle. Ai ragazzi faccio inviti continui: “Se avete qualche cosa da eccepire, venite da me. Ci possiamo chiarire”.
Forse si sentono intimiditi. Sembra che ai tempi della Roma il giovane Tallo amasse ironizzare durante le sedute a Trigoria: “Parla più forte, non si capisce niente”.Non l’ho sentito neanche io, quindi non posso commentarlo. (Sorride)
Si ricorda cosa disse su di lei Gianluca Vialli?Ne ha dette tante, ma dica pure, tanto una querela in più una in meno cosa vuole che cambi?
Vialli sostiene che lei sia furbo: “È un grandissimo paraculo, combatte le battaglie che gli convengono e si dimentica del resto”.Non capisco, io difendo le cose nelle quali credo. Lo faccio da sempre. Senza sforzi.
È vero che la scoprì Dell’Utri e le fece allenare la Bacigalupo?Mah, veramente quando arrivai a Palermo giocavo a pallavolo in serie B e nella mia squadra c’era un ragazzo che correva anche dietro a un pallone. Mi portò al Cinisi. Poi ho girato un po’ di chiese pallonare, dalla Carini alla Bacigalupo, la squadra che aveva il campo di fronte alla vecchia Favorita. “Posso dare una mano con i ragazzi”, dissi. La storia iniziò così.
A Cagliari si aspettano di riscriverla con lei. Il suo presidente, Giulini, ha promesso di arrivare in Champions entro il 2020.Sono contento che il presidente abbia ambizioni. Nello sport sono fondamentali. Poi bisogna anche rendersi conto della realtà. Se si vuole arrivare da qualche parte, bisogna anche conoscere la strada giusta. Di solito nel calcio tutti parlano di progetto e dopo un mese il progetto è già morto. Speriamo che il nostro duri a lungo. Sono fiducioso. Per me spazio dove non ci sono soldi è spazio più grande e più prezioso che esista. È spazio delle idee. Le idee non le hanno solo i ricchi.
Lo sosteneva anche Manlio Scopigno, tecnico del Cagliari scudetto del ’70, al quale la paragonano.Uno che aveva le sue idee e non si lasciava influenzare né condizionare dagli altri.
Sembra il suo autoscatto. Scopigno come lei fumava molto e quando trovava i giocatori chini sulla briscola nelle loro stanze colme di fumo, ne accendeva una insieme a loro.Non è cambiato il rapporto tra allenatore e giocatore, è cambiato quello tra i giocatori. Una volta andavano a mangiare tra loro e trascorrevano uniti il tempo del ritiro. Oggi fai tre fischi, chiudi la seduta e li vedi fuggire. Uno scappa a destra, uno a sinistra e non si trovano più. Dovrebbero passare un po’ di tempo insieme e parlare, invece si mettono le cuffie, si chiudono in camera e vanno su Facebook finendo per stare da soli. E da soli si sta molto bene, ma il gruppo non si crea.
Lei a carte in ritiro gioca ancora?Sono sempre stato per una sana partita a carte, anche se per ragioni oscure molte società le vietano. Ma se non ci sono soldi in ballo, che male c’è? E soprattutto, poi, se i soldi non li giocano a carte, li investono altrove che è anche peggio.
Buffon, il capitano della nazionale, scommetteva on line cifre rilevanti, ma non sul calcio.Io giocavo la schedina del Totocalcio all’epoca in cui costava 200 lire. Oggi non faccio più nemmeno quello. Quando si esagera, si esagera.
Guardiola ha detto che lei è stato coraggioso.Non credo, il coraggio serve per altre cose.
Serve anche a promettere di poter realizzare i sogni?Faccio quel che posso. Mi piace promettere massimo impegno. Mi auguro che basti per non retrocedere.
Allenatori che stima?Ventura del Torino. Forse è arrivato troppo tardi in serie A e non è più giovane, ma a Pisa e a Bari ha fatto un bel lavoro. Come si capisce simpatizzo per gli ultrasessantacinquenni.
Si capisce, in effetti…Io non penso mai a quanti anni ho, discorso dell’età non mi sembra interessante. I 67 anni li avverto. Qualche dolorino qui e là e fisicamente non riesco più a fare quel che facevo prima, ma mentalmente non mi sento vecchio.
È arrivato fino a qui. E pensare che a Salerno le avevano pronosticato un precoce Viale del Tramonto: “Dopo Salerno, Napoli e Avellino ti rimane solo la panchina del lungomare”.Sul lungomare sono sempre stato benissimo e in silenzio sto divinamente.
Come i sardi.A me piace ascoltare gli altri, per poi magari rendermi conto che dicono tante cazzate.
Da Il Fatto Quotidiano del 13 Agosto 2014

martedì 12 agosto 2014

12 agosto 2014

OSATE CAMBIARE   !!!!

12 agosto 2014


" OH CAPITANO, MIO CAPITANO !! "


CIAO

lunedì 11 agosto 2014

11 Agosto 2014

Tavecchio : Nuovo Presidente FGCI 'Spero di non aver offeso nessuno''

Carlo Tavecchio, candidato alla presidenza della Federazione italiana Giuoco Calcio torna a scusarsi per la battuta di 'Opti Poba', che gli è valsa l'accusa di razzismo. ''E' fisiologico che nelle competizioni elettorali i toni si inaspriscano e si dicano cose che non si pensano. Spero di non aver offeso nessuno"


.......Non solo ha offeso, ma la sua elezione offende ancor di piu' l'Italia civile.


mercoledì 6 agosto 2014

6 agosto 2014



Sacchi: "Mi divora il tarlo del perfezionista, lo stress del calcio non fa più per me"

L'ex allenatore spiega la sua battaglia con l'ansia: "Puntare al massimo è prima un alleato, poi un nemico"

di MAURIZIO CROSETTI
01 agosto 2014


ARRIGO Sacchi, ma cos'è questo famoso stress?
"Un tarlo, il tarlo del perfezionista: un vecchio compagno prima alleato e poi nemico. Diciamo che stiamo insieme da un bel po' di tempo".

Lei ha detto basta, non alleno più, sono troppo stressato. Ma stressati si nasce o si diventa?
"Ricordo che da bambino non finivo mai le vacanze, volevo rientrare a casa prima del tempo. Ero fatto così. Infelice di partire e contentissimo di tornare. Siccome non sono cambiato, a volte dico a mia moglie: beh, cara, sarebbe stato peggio il contrario".

Dove lavora il tarlo?
"Ma naturalmente nella testa, dove c'è la spiegazione di ogni cosa, anche delle vittorie su un campo di calcio. Chi pensa che a pallone decidano i piedi, o il talento, non ha capito niente".

Il tarlo si approfitta dei deboli?
"Non direi proprio, lui abita nel cervello dei perfezionisti. Ci sono tre categorie: i menefreghisti, gli arrivisti che sono pure peggio, e i perfezionisti. Io sono un perfezionista, dunque un ansioso. Penso che potrei fare sempre di più, sempre meglio, e quando sbaglio è quasi sempre per eccesso. Si paga un prezzo, ci si consuma, ma soltanto così ci si realizza veramente. Altrimenti è un lasciarsi vivere".

Il tarlo la visitava anche nei giorni di gloria al Milan?
"Certo che si. La prima volta firmai un contratto di un anno solo: tanto tra un anno smetto, dissi a Berlusconi. Pensavo alla salute".

Sono famosi i suoi abbandoni. Perché?
"Dal Real Madrid me ne andai perché voleva fare tutto il presidente Florentino Perez, all'Atletico perdemmo tre partite di fila, avevo un contratto biennale blindato ma il presidente Gil era inaffidabile. Non la posso mandare via, mi disse, e io risposi: tranquillo, vado via io. Ricordo quel giorno come una liberazione. Io amo la Spagna, ma il viaggio di ritorno a casa fu bellissimo".

Come definirebbe la fatica da stress?
"Cercare di capire tutto, anche quello che non condivido, anzi soprattutto quello. Difendere le proprie idee non convenzionali in un mondo retrodatato. A volte, rischiare di passare per matto. Mi accadde all'inizio, poi a Coverciano ascoltai grandi maestri della panchina come Roxburgh e Venglos e capii di non essere poi così distante da loro, e certamente non matto".

Lo stress del grande calcio ha una sua specificità?
"Forse sì. Per questo Guardiola ha avuto bisogno di una lunga pausa, e penso sia anche il motivo per cui Antonio Conte ha lasciato la Juventus: per logorio, necessità fisica di staccare prima di ammalarsi sul serio".

Lei quando si è accorto che gli altri la vedevano come un mattoide?
"A Bellaria arrivai in panchina da signor nessuno, come al solito. C'era in squadra un giocatore che era stato in A e in B. Un giorno sentii che diceva "io non ho mai fatto nessuna delle cose che ci chiede questo qui: o è un folle oppure un genio". Spero la seconda, gli risposi".

Il tarlo ha deciso che lei non allenerà mai più?
"Per adesso mi riposo, poi vediamo. Di recente mi è arrivata una proposta di un club importante per allenare di nuovo: grazie ma non ci penso nemmeno, ho risposto. Forse c'entrano pure i sensi di colpa".

Sarebbe a dire?
"Non sono stato un buon padre, per lungo tempo non ho dormito a casa per più di tre notti di seguito. Vorrei almeno essere un buon nonno. Due anni e mezzo fa è nata Giulia, la mia prima nipotina: io e mia moglie abbiamo letteralmente perso la testa. Lavorando con la Federcalcio, sarò stato con lei non più di tre o quattro mesi in tutto e non va bene. Adesso voglio recuperare il tempo perduto".

Più stanco o più deluso?
"Purtroppo siamo un paese che programma poco, e io sono un po' stufo di sentirmi sempre un alieno. Gli italiani sono gente ingarbugliata e poco incline alla ricerca dello spartito, del copione. Una cosa che nel calcio si può chiamare gioco, oppure progetto, e che a me piace definire anima".

La gioia delle vittorie sportive non è un antidoto sufficiente contro l'ansia?
"Sempre meno col passare degli anni, anche se la vera felicità è una sola, sempre la stessa, che tu vinca il campionato di seconda categoria o la Coppa dei Campioni. Per un tempo lunghissimo il mio stress è stato un plusvalore, una seconda carica di adrenalina. Alla lunga, però, il logorio non perdona. E se ti senti vuoto, non puoi riempire gli altri".

Quanto conta la stanchezza fisica?
"Non poco, perché il perfezionista stressato ha bisogno di precisi tempi di recupero, altrimenti sbiella. Mi sono accorto che questi tempi si fanno sempre più lunghi, invece un bravo allenatore deve trasmettere energia ventiquattro ore su ventiquattro".

La sua famosa intensità?
"Esatto. Il mio amico Carletto Ancelotti lo scrive nel suo libro: Sacchi era così convinto di quello che ci insegnava, che alla fine gli abbiamo creduto".

Esiste un equilibrio tra stress ed esperienza?
"Assolutamente sì, ed è diabolico. Perché adesso io sono sicuro di saperne di più, non solo nel calcio, rispetto a quando ero giovane, però mi manca quella grinta. Da una parte sei più ricco, dall'altra più povero".

Signor Sacchi, cosa ha fatto nel suo primo giorno senza stress?
"Ho dormito due ore nel lettone con la mia nipotina, qui a Milano Marittima, poi l'ho portata a vedere gli animali e un tacchino ci ha rincorso. Domani se farà bel tempo andremo a visitare la casa delle farfalle, ce ne sono a migliaia, bellissime. Volano tutte.

martedì 5 agosto 2014

5 agosto 2014

REPUBBLICA.IT
Intervista al presidente del Coni. A sei giorni dall'elezione si infiamma la sfida per la guida della Figc. "Il commissariamento sarebbe un'ipotesi positiva"
ROMA - "Da questa storia, che ormai è diventata un thriller, mi aspetto un finale a sorpresa. Magari entro l'11 agosto, magari subito dopo. Di certo il calcio italiano va resettato". L'inno di Mameli, la suoneria dell'iphone di Giovanni Malagò, riempie i saloni del palazzo H del Foro Italico a intervalli regolari. Più o meno ogni cinque minuti. Del resto, il numero uno del Coni, in un momento come questo, con la poltrona di presidente della Figc in bilico tra "Carlo Tavecchio l'impresentabile" e "Demetrio Albertini l'outsider dei poteri forti", deve essere sempre sul pezzo. C'è di mezzo l'immagine internazionale del calcio italiano, uno degli ultimi prodotti d'esportazione del paese.
Di buono c'è che quando chiude la telefonata, Malagò riesce quasi sempre a ripescare il punto esatto in cui si era interrotta la conversazione. "Dicevamo? Ah sì, del finale a sorpresa. Non posso dire altro. Solo che mercoledì stacco tutto e vado in ferie, ma ho pronto un piano b: se serve rientro subito a Roma. Il senso di responsabilità
prima di tutto".

Ecco, presidente Malagò. La responsabilità. Dopo i mondiali, il calcio è un'azienda tecnicamente fallita. Sparatorie davanti agli stadi, curve in mano agli ultrà, procuratori padroni, pagamenti in nero, dichiarazioni farneticanti. Quest'anno tra Serie A e Serie B ci saranno tre squadre con i capitani coinvolti nel calcioscommesse. E l'unica risposta che il movimento ha saputo dare è "Tavecchio". Lei, da presidente del Coni, non prova un po' di vergogna?
"Tutto quello che sta succedendo mi imbarazza moltissimo ".
E quindi?
"Resettiamo tutto".
Con Tavecchio 71 anni passati nel sottobosco del calcio o Albertini, già vice presidente di Abete?
"Il programma di Tavecchio è coraggioso e innovativo. Io però gli ho detto che non riuscirà ad attuarlo. Gli ho detto che ha troppe cambiali da pagare".
Si riferisce ai rapporti con i suoi sponsor? Galliani e Lotito?
"Gli ho detto che le sue idee non sono conciliabili con queste cambiali. Lui mi ha giurato che non ha vincoli con nessuno, stiamo a vedere. Per ciò che riguarda Albertini, la sua candidatura e la sua vittoria sarebbero di per sé una grande novità. Ma ritengo difficile il suo successo".

Dunque, resetteremo con Tavecchio, quello dei "negri mangiabanane". Provi a dare una risposta all'obbiezione di Daniele De Rossi ("quindi il prossimo anno quando voglio insultare un ragazzo di colore posso dargli del mangiabanane").

"Premesso che in questa fase le parole pronunciate da un giocatore della Roma o della Juve (grandi sponsor di Albertini, ndr) hanno un sapore diverso da quelle pronunciate da un giocatore della Lazio o del Milan (elettori di Tavecchio, ndr), non posso che ammettere che quanto detto da De Rossi è da incorniciare nella cassazione della giustizia sportiva".

Ritiene che Tavecchio debba essere deferito per il bananagate ?
"Direi che se ne deve occupare Palazzi".
Quindi il capo della procura della Federcalcio. Il tenore delle parole di Tavecchio era discriminatorio?
"Il concetto espresso da Tavecchio era assolutamente sensato, l'espressione era del tutto inaccettabile. Il contenuto discriminatorio era in linea con le frasi lette la scorsa stagione su alcuni striscioni delle curve che hanno generato dibattito".

Non pensa che sia ridicolo ridurre il tema della presidenza della Figc alla sola frase sulla banana. O alla rete di Godin, il giocatore dell'Uruguay il cui gol ha eliminato l'Italia dai mondiali?
"Credo che occorra parlare di tutto quello che c'è stato prima del campionato del mondo. C'erano le premesse per fare cose importanti per il movimento. Ma si è persa l'occasione. Comunque ritengo che Abete si sarebbe di-
messo comunque per motivi personali. Non per questo il suo gesto è stato meno nobile, però".
Dica la verità, lei tifa per l'ipotesi commissariamento?
"Sarebbe un'ipotesi positiva perché potrebbe realizzare cose che un presidente eletto non riuscirebbe nemmeno a proporre. Sarebbe invece negativa perché creerebbe un precedente pericoloso nel non rispettare l'autonomia della Federazione".
Non crede che questa storia dell'autonomia sia ormai diventata un modo per non assumersi la responsabilità di dire: "Siete incapaci", oppure: "Abbiamo fallito".
"Io la devo comunque rispettar ".
Grazie all'"autonomia" gli ultimi presidenti eletti sono stati Carraro (Calciopoli) e Abete (Calcioscommesse), e ora, a sentire lei, con ogni probabilità Tavecchio.
"A parte che secondo me nemmeno un veggente riuscirebbe a prevedere l'esito di questa partita e che secondo me succederà qualcosa di grosso subito dopo le elezioni. A parte questo, il calcio deve porsi il problema della complessità del ruolo di presidente federale. Vi chiedo, fatemi voi il nome di un buon presidente. Ma attenzione, deve essere uno che viene a Roma a lavorare 12 ore al giorno in cambio di 36mila euro lorde. Con tutta la pressione del caso, e con l'obbligo di trovare il consenso di un movimento vastissimo".

Non è il caso di riformarlo un sistema del genere? All'estero, in fondo, non sarà così diversa la realtà. Eppure ce l'hanno fatta.

"In Germania hanno messo il sistema in mano a grandi ex calciatori che dopo l'attività sono diventati grandi dirigenti. Calciatori-dirigenti sono l'ideale, non hanno bisogno di soldi e conoscono il sistema. Da noi i calciatori sono diversi: salvo rare eccezioni appena vedono i soldi pensano che non serva altro. Negli altri sport non è così. Gli atleti studiano, si creano percorsi paralleli. I calciatori no. Restano ignoranti".

Lei da presidente del Coni che cosa ha fatto per migliorare questa situazione?
"Sto cercando di favorire in tutti i modi la double career, che sta sfondando in tutte le federazioni tranne che nel calcio. Cammarelle (boxe) sta studiando management olimpico, e anche la Quintavalle (judo) e la Sensini (surf) studiano management sportivo. I calciatori nemmeno si laureano".
Insomma è colpa loro, non dei dirigenti che hanno creato un mondo retto da regole selvagge.
"La colpa è di un Paese che non ha cultura sportiva".

Dal primo giorno del suo mandato ad oggi il calcio non è migliorato di una virgola, anzi è peggiorato. Che senso ha un presidente del Coni con le mani legate dalla burocrazia?
"Il calcio non è migliorato, è vero. Ma io ho fatto presente che doveva migliorare. E, laddove potevo, sono intervenuto: giustizia sportiva, contributi alle federazioni, politica sportiva. Oggi il calcio è un mondo isolato nello sport italiano".
Il finale a sorpresa è il commissariamento?
"Non posso dirlo".
Ha già la squadra pronta?
"No. Ma sarei un pazzo se non ci stessi pensando".