martedì 31 dicembre 2013

31 dicembre 2013

AUGURI DI UN SERENO 2014

domenica 29 dicembre 2013

29 dicembre 2013

Ciao amici, buona domenica. Ci siamo allenati il 27 e il 28, erano assenti Sandra, bloccata a letto con l'influenza, e Carol , negli States dal marito. Da oggi le ragazze sono libere fino al 2 di gennaio, il 3 riprenderemo con un mini ritiro di 3 giorni. Arriveranno a Tauber 45 ragazze, cadette, giovani e Senior. Ciao, buon fine anno.

giovedì 26 dicembre 2013

26 dicembre 2013

Sentenza di appello ‘L’odore dei soldi’: regalo di Natale di Marco Travaglio. Tra i vari regali natalizi, uno dei più graditi è quello che vi allego qui: è la sentenza della Corte d’appello di Roma che rigetta il ricorso di Silvio Berlusconi. Pensate che, ‘con tutti i cazzi’ che ha, questo impunito continua a molestarmi per “L’odore dei soldi“, uscito nientemeno che nel febbraio del 2001 e balzato agli onori delle cronache il 14 marzo 2001 grazie a Daniele Luttazzi che mi invitò a presentarlo a Satyricon. Da quel momento la Banda B. si scatenò in tutti i suoi travestimenti con otto cause civili (quattro per il libro e quattro per la trasmissione tv) contro di me, contro l’altro autore Elio Veltri e contro gli Editori Riuniti compresi; ma anche contro Luttazzi e l’allora direttore di Rai2, Carlo Freccero. In fondo si accontentavano di poco: una settantina di miliardi di lire di danni richiesti in tutto, uno scherzetto. Lui, il Cainano, fece due cause per 31 miliardi in totale (quasi 16 milioni di euro); altre due le fece Confalonieri per Mediaset, chiedendoci 10 miliardi; due denunce le sporse Fininvest, lasciando – bontà sua – ai giudici di quantificare il danno; una a testa la sporsero Beppe Pisanu per Forza Italia (10 miliardi) e Giulio Tremonti per sé (1 miliardo). Le abbiamo vinte tutte e otto in primo grado. Ma la Banda B. ha insistitito con una raffica di ricorsi in appello. E l’altro giorno mi è arrivata la sentenza della Corte di secondo grado che ha riasfaltato Berlusconi. La motivazione è sempre la stessa: ”L’odore dei soldi” contiene soltanto notizie vere e critiche politiche legittime. Naturalmente, come già ha fatto per “Satyricon”, ora il cosiddetto Cavaliere ricorrerà in Cassazione e noi, naturalmente, ci saremo con i nostri avvocati. Vediamo chi si stufa prima. Ps. I decerebrati che negli ultimi mesi si divertono a dipingermi come un cripto-alleato di Berlusconi sono pregati di avvertirlo, affinché mi ricompensi per tutti i servigi che gli sto rendendo da quando sono passato dalla sua parte, o almeno la smetta di chiedermi 16 milioni di euro. Che, fra l’altro, temo di non possedere. Leggi la sentenza (file Pdf)

mercoledì 25 dicembre 2013

25 dicembre 2013

Ciao Ducci, Luciano, Sandra e Claudia auguri di Buon Natale

martedì 24 dicembre 2013

lunedì 23 dicembre 2013

23 dicembre 2013

23 dicembre 2013

Ciao amici, oggi e' una giornata meravigliosa, Tommy e' con me. Ciao

sabato 21 dicembre 2013

21 dicembre 2013

Merry Christmas✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Feliz Navidad ✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Joyeux Noël ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Frohe Weihnachten ✨✨✨✨ Feliz Natal ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨God Jul ✨✨✨ Prettige kerstdagen ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨İyi Noeller ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Wesołych Świąt ✨✨✨✨✨ Selamat Natal ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Glædelig jul ✨✨✨✨ God jul ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨S Rozhdestvom ✨✨✨Shèngdàn jié kuàilè ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Merīkurisumasu ✨✨✨✨✨✨ Hyvää Joulua ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Kalá Christoúgenna ✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨ Mele Kalikimaka

venerdì 20 dicembre 2013

20 dicembre 2013

20 dicembre 2013

20 dicembre 2013

20 dicembre 2013

20 dicembre 2013

Ciao amici, un saluto da Pignano, sono ritornato a casa per le vacanze di Natale. Dopo l'allenamento di ieri pomeriggio e le lezioni di questa mattina le ragazze sono in vacanza; riprenderemo con due giorni di allenamento il 27 e il 28 , per poi rivederci tutti con il nuovo anno il 3 di gennaio. Mandi

mercoledì 18 dicembre 2013

19 dicembre 2013

Mafia, l’intervista a Di Matteo: “Riina mi vuole morto. I politici attaccano l’indagine” Il pm dice del boss: "Non si limita a minacciare, ha ordinato di uccidermi". Il magistrato racconta la sua vita sotto scorta e parla dei tentativi, da parte delle istituzioni, di delegittimare il processo sulla trattativa tra Cosa Nostra e Stato Alle 17.30 Nino Di Matteo, il pm che Totò Riina vuole morto ammazzato è al lavoro nel suo ufficio, al secondo piano del Palazzo di giustizia di Palermo. Dire che non sia turbato, sarebbe troppo. Ma non ha perduto né la calma, né il sorriso. La determinazione, quella, è addirittura aumentata. Dottor Di Matteo, qual è il suo pensiero dominante dopo 15 mesi di minacce e preannunci di attentato? Cercare di capire a fondo quel che sta succedendo intorno a me. Non tutto è ancora così chiaro. Un anno fa, al primo alternarsi di minacce di stile mafioso e di fonte istituzionale, pensai a qualcosa di casuale. Poi mi convinsi che erano attacchi collegati. Ora sentire e vedere Riina pronunciare quelle parole rabbiose e quegli ordini di morte contro di me mi riporta al contenuto di una delle prime minacce che mi fu recapitata anonimamente. Il dossier di 12 cartelle intitolato “Protocollo Fantasma”, con lo stemma della Repubblica Italiana, che la metteva in guardia dallo spionaggio di “uomini delle istituzioni” verso una “centrale romana”, l’avvertiva che si stava inoltrando su terreni pericolosi e citava politici della Prima Repubblica coinvolti nella trattativa non ancora toccati dalle indagini? Quello fu il primo messaggio di fonte istituzionale. Però mi riferivo al secondo, successivo alle elezioni di febbraio. La lettera giunta il 26 marzo, scritta al computer da un anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annunciava la sua eliminazione – in alternativa a quella di Massimo Ciancimino – perché l’Italia “non può finire governato da comici e froci”? Quella. Usava un frasario tipico di chi vuole accreditarsi come appartenente alle istituzioni o ad apparati investigativi. E parlava della decisione di uccidermi “chiesta dagli amici romani di Matteo”, cioè di Messina Denaro, avallata dal carcere anche da Riina “tramite il figlio”. Ora che ho ascoltato la viva voce di Riina ho capito il collegamento fra le due tipologie di minacce: quelle mafiose e quelle istituzionali o para-istituzionali. E ho colto la sottovalutazione che se ne fa, magari in buona fede, per ignoranza, su molti giornali e a livello politico. Sottovalutazione? Tutti parlano di minacce di Riina. Ma minacciare qualcuno significa volerlo spaventare. Riina, intercettato in carcere, non si limita a minacciarmi: il suo è un crescendo di parole rabbiose che culminano nell’ordine di uccidermi. Tant’è che i procuratori di Palermo e di Caltanissetta hanno utilizzato uno strumento eccezionale previsto dal Codice per “desegretare” le intercettazioni e ne han consegnato la trascrizione e il supporto audio-video al ministro dell’Interno Alfano. Parlare di “minacce” è improprio e fuorviante. Non voglio farla polemizzare con le massime cariche dello Stato, ma proprio questo dicono, dopo un anno e mezzo di silenzi imbarazzati e imbarazzanti: solidarietà ai magistrati minacciati dalla criminalità organizzata. Per carità, solidarizzare con tutti i magistrati minacciati dalla criminalità organizzata è giusto: le minacce delle mafie sono sempre cose serie. Ma i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia sono un caso a parte: qui lo stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista, sospesa vent’anni fa con la lunga Pax Mafiosa seguita alla trattativa. Qual è il suo stato d’animo in questi giorni? È un complesso di stati d’animo. Se mi guardo intorno e rifletto razionalmente, mi dico che non è valsa e non vale la pena aver sacrificato, in vent’anni di vita scortata, tanti momenti importanti di libertà e di spensieratezza miei e delle persone che mi stanno accanto. Ma poi per fortuna prevale la passione, come in tanti magistrati della mia generazione. Quando entrai in magistratura 22 anni fa, lo feci proprio con l’aspirazione di occuparmi di mafia. Il mio punto di riferimento era il pool antimafia di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino. Tre su quattro li abbiamo purtroppo accompagnati nella tomba, ma quello è rimasto il mio imprinting. Quindi prevale ancora la passione? Sì, e ha la meglio sulla razionalità pura che consiglierebbe di mollare tutto. La passione per la bellezza del nostro lavoro. Che però non cancella la consapevolezza che fare il magistrato in questo modo – l’unico che conosco leggendo la Costituzione – “non paga”. Né in termini di serenità personale, né di carriera, né di apprezzamento omogeneo dalle istituzioni e dagli uomini che le rappresentano, e anche da pezzi importanti dell’opinione pubblica. Ma non importa, andiamo avanti. Prima delle stragi del ’92 era palpabile a Palermo l’insofferenza per i magistrati antimafia, le scorte, le sirene, le zone di rimozione forzata, i pericoli indotti dalla presenza di giudici a rischio. Si respira di nuovo quell’aria? No, anzi l’intensificarsi dei pericoli per la mia persona è stato accompagnato paradossalmente da un surplus di solidarietà e vicinanza di tanti cittadini: lettere, email, parole d’incoraggiamento. Anche dai vicini di casa. È uno dei maggiori, e rari, motivi di conforto. Lo stesso vale naturalmente per la mia famiglia: ho la fortuna di essere circondato da persone che condividono idealmente gli stessi valori che sono alla base del mio impegno. Andiamo avanti, pure con grande difficoltà. Com’è cambiata la sua vita in questi ultimi mesi? Non devi mai ripetere gli stessi movimenti e gli stessi percorsi, che devi rendere il più possibile imprevedibili. Sei costretto a rinunciare anche a quelle piccole e poche cose che ancora ti concedevi prima, anche da scortato. Ma non è questo che mi pesa. Cosa le pesa di più? La consapevolezza che, quando ti inoltri su certi crinali investigativi sui rapporti fra mafia e istituzioni (non soltanto quelle politiche, ma anche i cosiddetti “apparati”), senti – per usare un eufemismo – di non essere capito da chi rappresenta lo Stato e persino da vasti settori della magistratura. Troppi continuano a pensare che le nostre indagini siano tempo perso, risorse sottratte alla “vera lotta alla mafia”, che consisterebbe soltanto nell’arrestare la manovalanza criminale, nel sequestrare carichi di droga. Invece, oggi più che mai, un contrasto serio alla criminalità organizzata deve recidere i suoi legami con istituzioni, politica, finanza, forze dell’ordine, apparati. A parole, lo dicono tutti. Sì, ma poi appena qualche pm ci prova e magari ci riesce, ecco il solito coro pieno di risolini e di dubbi sparsi a vanvera: ti senti additato al pubblico ludibrio come un “acchiappanuvole”, o peggio come un soggetto destabilizzante che rema contro le istituzioni per scalfirne il prestigio. C’è chi ancora ripete il ritornello che, scoperchiando la trattativa, abbiamo fatto un favore a Riina mettendo sotto accusa uomini dello Stato e della politica. Riina, a sentirlo parlare, non sembra proprio pensarla così. Anzi: manifesta nei nostri confronti una rabbia furibonda, che vuole addirittura tradurre nel mio assassinio. Si è domandato perché Riina ce l’ha tanto e proprio con lei? No. Ma constato che mi sono occupato spesso e da molto tempo di processi che lo vedevano imputato: sono stato pm sulle stragi di Capaci, di via D’Amelio, sugli assassinii dei giudici Chinnici e Saetta e su altri omicidi perpetrati a Palermo. Ciò malgrado, Riina, per quei processi, non aveva mai manifestato quel furore contro di lei. Che esplode solo per la Trattativa. Con l’uscita di Ingroia, sono il pm che da più tempo segue quelle indagini. Quindi quella rabbia non me la spiego altrimenti. Eppure, dagli atti che avete depositato finora, non si coglie un motivo che giustifichi tanta rabbia. A Riina non dovrebbe dispiacere di apparire come il superstragista che ha messo in ginocchio lo Stato. Avete il dubbio di non aver capito ancora tutto ciò che è acceduto, e che lui invece conosce bene? Non il dubbio: la certezza. Finora abbiamo capito e riteniamo di aver provato solo una parte di ciò che è avvenuto. Non è casuale la tempistica dell’intensificarsi di questa pressione. Inizialmente si pensava che l’indagine sarebbe finita in archivio. Poi invece c’è stata la nostra richiesta di rinvio a giudizio e poi l’ordinanza di rinvio a giudizio del gup. E il processo è iniziato. Ma non è un mistero che stiamo continuando a indagare: non ci fermiamo certo a cercar di provare la colpevolezza degli attuali imputati. Vogliamo trovare chi li ha manovrati, li ha diretti e ha concorso con loro, dall’esterno di Cosa Nostra, nei delitti che abbiamo contestato. Con chi, perché e su incarico di chi gli attuali imputati han fatto ciò che han fatto. Ecco: quando si è capito che non ci fermiamo, sono partite non solo minacce e ordini di morte, ma anche episodi pericolosi come l’irruzione in casa del giovane collega Roberto Tartaglia. Voi rappresentate lo Stato, ma anche chi ha fatto la trattativa e chi vi minaccia o fa di tutto per ostacolarvi. Quanti Stati ci sono, in Italia? Lo Stato è uno solo: quello disegnato con chiarezza e precisione dalla Costituzione. Per essere credibile e riconosciuto come tale, lo Stato non deve temere di processare se stesso, attraverso propri esponenti infedeli, collusi, deviati. Altrimenti non ha titolo neppure per processare la criminalità, organizzata e non. Mai avuto il dubbio di essere voi, i deviati? No, nemmeno quando veniamo additati come tali, come portatori di interessi diversi dalla giustizia e dalla legalità costituzionale. Certo, c’è la sensazione palpabile di essere devianti rispetto al sentire comune molto diffuso che vorrebbe imporci una particolare “prudenza” perché non scoperchiamo certi vasi. Ma quella sulla trattativa è una delle poche indagini che ha subìto attacchi praticamente da tutte le parti politiche: almeno non possono accusarci di volerne favorire una a scapito di un’altra. Qual è l’accusa che vi ha ferito di più? Quella di autorevoli esponenti del giornalismo e della politica che ci attribuiscono addirittura la finalità di ricattare il capo dello Stato, solo perché ci siamo imbattuti casualmente in alcune sue telefonate con l’ex ministro Mancino, o perché l’abbiamo citato come testimone. È l’accusa più pesante e ingiusta, ma ci è toccato sopportare anche questo. Quella vicenda ha trascinato tutti voi dinanzi alla Consulta e lei e il suo capo Messineo al Csm. Avete la sensazione che quella doppia delegittimazione abbia tappato la bocca a chi magari poteva collaborare pienamente alle indagini? Posta così la domanda, è difficile rispondere. Diciamo che i pentiti di mafia ragionano ancora con l’istinto tipico dei mafiosi: se capiscono di avere di fronte dei pm attaccati dalle istituzioni, fiutano che parlare di certi argomenti potrebbe essere scomodo e poco conveniente anche per loro. E magari chi sa molte cose si attesta su canoni di ordinaria “normalità”, rivelando solo ciò che non scandalizza troppo il sistema, e dunque non si rivela troppo dannoso per lui. Lei è sempre sotto procedimento disciplinare al Csm? Sì. A marzo mi è stato notificato l’atto di incolpazione, con l’accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate indirettamente intercettate fra lui e Mancino. Sono già stato interrogato e ora attendo che il Pg della Cassazione decida se chiedere al Csm di condannarmi o di prosciogliermi. A quel che risulta a me e al mio difensore, è la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista. Ma, se sarò rinviato a giudizio, mi difenderò con serenità, ben conscio di aver fatto soltanto il mio dovere e di non aver violato alcuna legge o regola. Come il mio ufficio ha già fatto – purtroppo con gli esiti a tutti noti – dinanzi alla Consulta nel conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale. Anche alla Consulta la sua Procura sostenne di aver obbedito soltanto alla legge. Certo, e la prova era nei fatti: non era la prima volta che una Procura, intercettando un soggetto coinvolto nelle indagini, captava casualmente sue conversazioni con un presidente della Repubblica. Era accaduto nel 1992 a Milano con il presidente Scalfaro. Ed era capitato nel 2009 a Firenze con Napolitano. In entrambi i casi, i pm avevano fatto trascrivere le telefonate e le avevano depositate agli atti. Nel caso di Scalfaro i giornali le avevano riportate. Eppure il Quirinale non sollevò alcun conflitto contro i magistrati. Lo fece soltanto con noi nel 2012, sebbene non avessimo fatto trascrivere quelle conversazioni penalmente irrilevanti, le avessimo custodite in cassaforte e avessimo spiegato che ne avremmo chiesto la distruzione. All’amarezza per quel che è accaduto, unisco però una soddisfazione, mia personale e dei miei colleghi: i nostri scassatissimi armadi hanno mostrato una tenuta stagna, infatti di quelle telefonate non è uscita neppure una sillaba. Nessuno può rimproverarci di non aver compiuto al meglio il nostro dovere di magistrati. Cos’ha pensato quando il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza le ha proposto di girare per Palermo a bordo di un carrarmato Lince? Sulle prime, non sapevo neppure cosa fosse. Ho visto la foto in Internet di un Lince usato nella guerra in Afghanistan e ho detto di no. Oltreché impensabile dal punto di vista pratico e logistico, un magistrato che deve circolare a bordo di un carrarmato diventa anche ridicolo. E se c’è una cosa che non posso accettare è che il mio lavoro venga messo in condizione di perdere il rispetto. La sicurezza non può diventare un pretesto per i tanti che guardano con ostilità al nostro impegno per metterci alla berlina. Tutti gli altri rischi li accetto: questo no. Si è parlato anche dell’uso di un robottino anti-esplosivi, il “Jammer bomb”. Lo Stato sta facendo tutto quello che può per garantire la sua sicurezza? Io non ho mai chiesto nulla: ci sono autorità preposte a queste decisioni tecniche e stanno operando con la massima professionalità. A cominciare dai carabinieri della mia scorta. Ma un magistrato è sicuro soprattutto quando tutte le istituzioni si mostrano totalmente unite nell’affermare che il suo operato – peraltro criticabile – non può subire minacce né annunci di strage. La reazione compatta di tutto lo Stato sarebbe la migliore protezione per me e per qualunque altro magistrato in pericolo. E quella reazione compatta per ora non c’è stata. Finora è arrivata solo a spizzichi e bocconi, con molta lentezza, fatica e reticenza. Ma non dispero che ci si arrivi, un giorno o l’altro… Da Il Fatto Quotidiano

18 dicembre 2013

DUE MADRI R. VECCHIONI Nina due madri ti seguono, si specchiano dentro i tuoi occhi di cielo, innamorate dal giorno che ti hanno cercata e voluta davvero Cloe io so cosa pensi: due madri son tante, però siete in due, e si dividono a turno i tuoi sorrisi e le lacrime sue E si portano dietro quel giorno sfiorato di prime tremanti parole, come amore alla faccia del mondo, come l’unica via per non essere sole Come il sole all’inferno, come un fiore d’inverno. e l’inizio di un sogno Nina due madri son come la luna di notte e il sole di giorno, come due storie e due trame di una stessa favola per prendere sonno Cloe non credere ai tanti tamburi di latta del mondo normale, se grideranno allo scandalo mettiti a ridere perchè sei speciale Datemi sempre la mano perchè sono vecchio e non vedo lontano, camminatemi sempre davanti ho i sogni leggeri ma i piedi pesanti, Ditemi sempre la strada per me fa lo stesso dovunque si vada e non statemi a prender sul serio, se dico che i sogni li ho persi nel cielo Voi non state a sentire, dico tanto per dire, e mi va di scherzare. Quando l’airone discese portandovi in volo tra i raggi del sole Le vostre madri vi han preso la penna d’argento che toglie il dolore; Ditemi sempre la strada per me fa lo stesso dovunque si vada e non statemi a prender sul serio se dico che i sogni li ho persi nel cielo Dico tanto per dire, per non farmi capire, per non farmi soffrire

martedì 17 dicembre 2013

17 dicembre 2013

“Emanuele Severino, l’intervista: “Ecco perché la giovane Italia va in malora” Il filosofo racconta la crisi di un Paese acerbo che ha abbandonato i valori. E poi il fascismo, la Guerra fredda, il fu Pci, il capitalismo. E dei movimenti di piazza dice: “La vita sociale non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. Siamo in una fase pericolosa” L’umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insuperabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera. Il taxi attraversa Brescia, gelida. L’indicazione stradale è precisa e, nel finale, perfino letteraria: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”. Giunti nei pressi dei luoghi cari al poeta – che a Brescia, oltre ad amare appassionatamente una gentildonna, diede alle stampe i Sepolcri – si apre la porta di casa di Emanuele Severino (foto dalla pagina Facebook a lui dedicata). Entriamo non senza timori (ben riposti: il primo scivolone arriva al minuto tre, su un frammento de La gaia scienza di Nietzsche), in un soggiorno che ospita mille libri, un pianoforte a coda e un’imponente scultura del figlio Federico. È un Orfeo che ha perduto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria – spiega il professore – e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”. Per capire qual sia lo sguardo di un filosofo sull’Italia (e se Proust – di cui il professore si occupa ne La filosofia futura – aveva ragione), partiamo da Leopardi, perché al piano di sotto c’è uno studio “riservato” dove il professore ha scritto i due libri dedicati al poeta di Recanati. Professore, quel “Piangi, che ben hai donde, Italia mia” è un grido di dolore sempre valido? Sì, ma dobbiamo dire che le spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene adeguatamente affrontato, è l’abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell’Occidente si sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assoluto – e innanzitutto Dio. Dio è morto… Come la canzone… Il professor Severino scoppia a ridere: Veramente come Nietzsche! Poi lui aggiunge: “E noi l’abbiamo ucciso”. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto che è lo Stato moderno, che detiene – dice Weber – “il monopolio legittimo della violenza”. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme della tradizione è guidato dalla tecnica moderna – ed è irresistibile nella misura in cui ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le forme più deboli di Stato. Cosa pensa dei movimenti di piazza di queste settimane? La trasformazione epocale di cui parlo non è indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di funzionare, soprattutto in Paesi come l’Italia. E il nuovo ordine non ha ancora preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l’Italia). La disperazione sociale è evidente e molto preoccupante. Per quel che prima ho detto, la vita sociale, anche in Italia, non è più adeguatamente garantita. La protesta è inevitabile e la situazione potrebbe peggiorare. La “politica” autentica del nostro tempo consiste nel capire la radicalità della trasformazione in atto sul Pianeta, cioè deve lasciare la guida alla razionalità scientifico-tecnologica, destinata a imporsi con la morte del vecchio mondo. Tra le forme più deboli di Stato c’è l’Italia? L’Italia è uno Stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel mondo un peso ben maggiore di quello dell’Italia unita. Pensi, ad esempio, allo Stato pontificio. La sua storia attraversa l’intera storia europea: qualcosa di molto più consistente e visibile che non l’Italia. Non mi sembra un caso che Putin venendo in Italia vada prima dal Papa, nel centro mondiale della cattolicità, e solo dopo da tutti gli altri… Un secondo esempio? La Repubblica di Venezia. A suo tempo era l’equivalente dell’Inghilterra del XIX secolo. Potenze, dunque che non solo sono state al centro della vita mondiale, ma hanno organizzato la società in modo che lo Stato italiano sarebbe poi stato avvertito come un corpo estraneo da gran parte della popolazione della Penisola. Di qui il marcato individualismo degli Italiani. È questo il motivo per cui non abbiamo un senso dello Stato consolidato come in altri Paesi? Sì, la “novità” del nostro Stato è tra i principali. Ma un secondo motivo – ce ne sono molti: parlo di quelli che qui mi vengono in mente – è che durante la Guerra fredda l’Italia ha avuto il più forte partito comunista dell’Occidente: il Pci è arrivato quasi al potere e in un modo democratico. Si verificarono due processi, diciamo concorrenti: il Pci andava progressivamente social-democratizzandosi e il consenso aumentava. Il problema era fare in modo che il primo processo fosse più veloce del secondo. Altrimenti sarebbero stati guai, nel senso di una reazione violenta del mondo occidentale che non avrebbe consentito all’Italia di entrare nella sfera di influenza sovietica. La marcia del comunismo verso la socialdemocrazia è uno degli esempi rilevanti di quello che chiamo “il tramonto degli immutabili” (cioè degli “dèi”). Il Pci era radicato nel marxismo, cioè, innanzitutto, in una filosofia. La cui crisi è iniziata quando la sinistra europea – si pensi ad esempio a Rudolf Hilferding – ha incominciato a spingere il comunismo da una gestione filosofica a una scientifica del movimento rivoluzionario, trasformandolo, appunto, in socialdemocrazia. Però lei ha scritto un libro intitolato Capitalismo senza futuro. Anche il capitalismo, infatti, ha alle spalle una visione filosofica prevalentemente assolutistica, del mondo (individuo e proprietà come valori assoluti). Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto. In Italia è più debole; ma la presenza dell’assolutismo cattolico e, fino a ieri, di quello comunista fa si che l’abbandono della tradizione abbia da noi un maggiore effetto traumatico rispetto ad altri Paesi. Ma poi – ritornando al tema della mancanza di senso dello Stato – essa porta con sé individualismo esasperato e corruzione. E, in proposito, sembra che la Guerra fredda sia stata già dimenticata. È finita da pochissimo. In Occidente il comunismo è finito, ma è come se avessimo davanti un gigante morto. È in putrefazione, ma dà luogo a forme biologiche diverse e ingombranti. La contrapposizione tra il blocco sovietico e quello occidentale è stata una situazione di mors tua, vita mea. Ognuno ha adottato qualsiasi mezzo per contrastare l’avversario… Per esempio? Penso alla sostanziale “alleanza” tra Stati Uniti e mafia: meglio stare con i delinquenti non comunisti che con i comunisti. Ora, il denaro americano arrivava soprattutto per aiutare i partiti anticomunisti; ma la gestione politica di questo denaro non poteva essere un fatto pubblico; inevitabile, allora, la collusione tra Stato e illegalità. Che è sopravvissuta anche dopo la fine dell’Urss. D’altra parte la magistratura è stata ingenua nel voler assumere un atteggiamento all’insegna del fiat iustitia et pereat mundo. Qual è stata l’ingenuità? Pensare di poter spingere fino in fondo le indagini sulle responsabilità e illegalità prodottesi dalla inevitabile collusione tra Stato e criminalità . Sta parlando di Tangentopoli? Un esempio potrebbe essere questo. Ma vado anche più in là: mi riferisco al mondo capitalistico. La magistratura ha voluto fare qualcosa che non era accaduto nemmeno con la fine del fascismo. Togliatti non ha incriminato i funzionari e la classe dirigente del fascismo. Ha scelto l’amnistia… L’Italia è storicamente allergica alle epurazioni? Intendo dire che il capitalismo ha vinto la Guerra fredda; ed è ingenuo credere di poter trattare dal puro punto di vista giudiziario un fenomeno storico di questa portata. I pm di Mani Pulite hanno sempre detto di essere stati travolti da una valanga di chiamate in correità. E nel nostro sistema l’azione penale è obbligatoria. E questo produce un dramma! Non sto dicendo che si sarebbe potuto evitare. Il giudice è ovviamente obbligato a indagare e a dare sanzioni, ma è anche ovvio che il vincitore – il capitalismo – non accetta di essere punito per aver usato mezzi che gli hanno consentito di vincere il nemico mortale. La lunga gestazione della decadenza di Berlusconi è la prova che non esiste una sanzione sociale per alcuni comportamenti. E questo determina che alla fine i giudici selezionano la classe politica, nel senso che se uno non è stato condannato può fare tutto quello che vuole. Se il presidente degli Stati Uniti dice una bugia si deve dimettere. Ma certo! Aggiungo che 25 anni fa scrivevo, nel libro da lei richiamato, che era meglio che la Fininvest scendesse in campo politicamente, piuttosto che trattenere del tutto nell’ombra il proprio operare. Lo sottoscrive? Sì, meglio questo di una destra che agisce con lo stile della P2. Meglio, per l’Italia, che esprima pubblicamente i propri progetti, almeno in parte. Anche se si fanno le leggi ad personam? Non è pericoloso dire certe cose in un Paese dove i magistrati vengono tacciati di essere un cancro? Condivido il senso della domanda. Ma proprio perché ho scritto libri come Il declino del capitalismo e Capitalismo senza futuro, quanto le sto dicendo non può passare per un’apologia del capitalismo e delle sue degenerazioni. (Non è nemmeno un’apologia del marxismo). È la constatazione di alcuni dei fattori per i quali la destinazione della tecnica al dominio del mondo produce in Italia una crisi più grave che altrove. E non dimentichiamo le tragedie e gli scompensi determinati dalla dittatura fascista. Che ricordi ha dell’Italia fascista? Rispetto ai nostri temi sono irrilevanti. Il più terribile, per me, è un ricordo personale, legato alla morte di mio fratello Giuseppe nel 1942, ventunenne. Un giovane straordinario. Aveva otto anni più di me. Studente alla Normale di Pisa, era stato obbligato, per legge, a diventare volontario del Regio Esercito Italiano, nel Corpo degli Alpini, sul fronte francese: la sua morte mi ha segnato. Non posso dire di aver respirato, da ragazzino, l’esecrazione per quanto, in seguito, ho saputo e capito essere il fascismo. Ho studiato dai Gesuiti: ricordo il saluto fascista all’uscita della scuola. Lì ho incontrato padre Auer, che aveva conosciuto Hitler da vicino. Andavo a lezione da lui perché volevo imparare il tedesco. Era stato intimo del giovane Hitler e mi raccontava di un uomo assolutamente disturbato, che se le cose non andavano come lui voleva, aveva incredibili accessi d’ira, si rotolava per terra. Un matto. Nelle mie conversazioni con padre Auer, ripensandoci ora, davo per scontato che i nazisti fossero dei matti. Si evoca, con una certa frequenza, un’incapacità dell’Italia di fare i conti con il passato. Cosa ne pensa? Le rispondo parlando di un filosofo, Giovanni Gentile, che mio fratello ascoltava a Pisa, perché è stato la figura più profonda del fascismo. Amo dire che non era Gentile a essere fascista, ma il fascismo a tentar di essere gentiliano. Gentile è stato uno dei grandi gestori del “grande turbine” di cui parlavamo all’inizio: il suo pensiero è profondamente antiassolutista e antitotalitario, Mussolini non lo capiva. Da vecchio liberale aveva visto nel fascismo l’occasione per realizzare la sua riforma della scuola. Un’ottima riforma, per quell’Italia. Oggi – anche qui, per la debolezza delle nostre strutture statali – si fanno tra l’altro concorsi universitari dove si applicano retroattivamente disposizioni pateticamente dipendenti dalla cultura inglese e americana. Anche l’idea di studiare la filosofia da un punto di vista storico è sua: un’idea purtroppo rovinata dai manuali che non hanno capito che cosa sia un storia filosofica della filosofia. Comunque, gli scritti politici di Gentile considerano il fascismo come un “esperimento”, non certo come un assetto assoluto e immodificabile. Evasione fiscale e corruzione: sono una nostra “tara genetica”? Una tara storica, come prima le dicevo. L’evasione fiscale è un furto ai danni di tutti. Se c’è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero, fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai quali molti uomini di Chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto “giusto” pagare le tasse dello Stato, avrebbero fatto bene a non pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non vorrei che si perdesse di vista che la “corruzione” di fondo è l’“evasione” del mondo dal passato dell’Occidente. Vorrei dire che il processo in cui le strutture del passato stanno andando in malora è come la febbre: se non la si avesse non si potrebbe guarire. Stiamo andando verso un mondo gestito dalla razionalità tecnologica; ed è probabile che l’Italia, proprio perché ha avuto gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, anticipi i tempi rispetto agli altri popoli meno febbricitanti. (Mi lasci dire anche, molto sottovoce, che nonostante la sua destinazione al dominio del mondo, la civiltà della tecnica è ciò che chiamo “la forma più rigorosa della Follia estrema”. Ancora più sottovoce: la Follia estrema è credere nel carattere effimero, temporale, contingente, casuale, dell’uomo e della realtà: è la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni. Però la difesa suprema dall’angoscia suscitata da questa convinzione – la difesa che nella tradizione è costituita, in ultimo, da Dio – è diventata la tecnica. Ovunque, la tecnica sta diventando la forma più radicale di salvezza, che oggi ha soppiantato qualsiasi altra forma di rimedio contro la morte. Mi affretto a lasciare questo tema, tanto più importante quanto più a sottovoce ne parliamo). Anche in politica ci si affida alla tecnica come extrema ratio. Si è trattato, nel caso del governo Monti, del disvelamento di una bugia? Rispondo ad alta voce. Una quindicina d’anni fa avevo criticato sia Monti sia Abete quando promuovevano l’unione di “solidarietà” ed “efficienza” (capitalistica). Abete, allora presidente di Confindustria, declinava tale unione, mi sembra, sul piano di una solidarietà più laica che cattolica; Monti la intendeva come solidarietà cattolica. Ma l’“efficienza” capitalistica è incompatibile con la “solidarietà” in senso cristiano. Quando Monti divenne premier, scrissi un articolo sul Corriere della Sera in cui dicevo che l’affacciarsi del suo governo “tecnico” aveva ben poco a che vedere con la destinazione della tecnica al dominio, quale viene intesa nei miei scritti. Proprio perché Monti dichiarava di voler coniugare l’efficienza capitalistica con la solidarietà in senso cattolico, quel governo “tecnico” – era prettamente politico, un po’ mascherato. Ancora, l’economia comanda la politica e quindi un economista può essere più politicizzato (cioè “ideologizzato”) di un politico. Data la tendenza di fondo del corso storico ritengo tuttavia che ci si debbano aspettare governi che, sempre più, guidino le società sulla base dell’efficienza tecno-scientifica piuttosto che di quella capitalistica, e che a questa forma di efficienza resti sempre più subordinata l’istanza solidaristica. Le ideologie sono morte ma forse sono scomparse anche le idee. Destra e sinistra esistono ancora? In ogni gruppo sociale ci sono quelli soddisfatti del proprio tenore di vita e tendono alla conservazione – la “destra” – e quelli che invece soddisfatti non sono e tendono al cambiamento – la “sinistra”. Qual è la visione del mondo dello schieramento “progressista”? Guardi: l’onorevole Gianni Cuperlo mi ha mandato un’email con il suo programma, chiedendomi cosa ne pensassi. Gli ho risposto che era un programma interessante, anche per il suo intento di collegarsi alla sinistra europea. Poi ho aggiunto che il suo progetto era il modo migliore per salvaguardare il capitalismo. Non mi ha più risposto. Ma vorrei dirgli che in quella mia aggiunta non c’era ombra di ironia. Perché il modo migliore per salvaguardare il capitalismo? Ormai la sinistra, non solo italiana, non è più nemmeno socialdemocrazia, che mirava all’abolizione delle classi e del capitalismo per via democratica. Ormai anche il Pd è lontanissimo da queste aspirazioni, immerso com’è nella fede, peraltro diffusissima, della validità dell’organizzazione capitalista della società. Curiosità mondana: guarda la televisione? Quando c’è un buon film e, quasi sempre, il telegiornale. E i talk show? All’inizio i litigi dei politici erano abbastanza divertenti; adesso annoiano. Ma se vogliamo parlare di televisione non possiamo lasciar da parte Internet. C’è contesa per la “conquista dello spazio”; nemmeno il “cyberspazio” ha un unico padrone e i grandi gruppi economici se lo contendono. Chi vuole imporsi sul mercato, deve utilizzare televisione e Internet e tutti i mezzi telematici. Lo strumento (il mezzo) però è destinato a prevalere sugli scopi economico-ideologici. Anche perché ciò che più colpisce lo spettatore non è tanto il messaggio quanto piuttosto la capacità di Internet e televisione di comunicare qualsiasi messaggio. (Un esempio, questo – e torno a parlare sottovoce – del processo, inevitabile, nel quale la tecnica è destinata al dominio, cioè a servirsi, essa, delle grandi forze che ancora s’illudono di poter continuare, loro, a servirsi di essa. Ma nemmeno la tecnica ha l’ultima parola). da Il Fatto Quotidiano del 15 dicembre 2013

domenica 15 dicembre 2013

16 dicembre 2013

Morta Giuliana Dal Pozzo, fondò Telefono Rosa. Sollevando il velo sulle violenze domestiche. All'età di 91 anni se n'è andata la giornalista che nel 1988 ebbe l'intuizione di uno "sportello" al Comune di Roma trasformatosi poi in un servizio innovativo dedicato alle donne molestate a casa o al lavoro. Direttrice di Noi Donne dopo Miriam Mafai, affrontò i grandi temi dell'emancipazione femminile: divorzio, aborto, contraccezione ROMA - Giuliana Massari Dal Pozzo, giornalista dalla parte delle donne, fondatrice del Telefono Rosa, è morta a Roma all'età di 91 anni. Nel 2007 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l'aveva nominata Grande Ufficiale al merito della Repubblica proprio per la sua "attività meritoria" in aiuto delle donne vittime di violenza. Giuliana era nata a Siena, contrada dell'Oca, aveva diretto il settimanale Noi Donne. Nel 1988, quando il termine "femminicidio" non apparteneva al linguaggio comune, ideò il Telefono Rosa, un'associazione di volontarie a sostegno delle donne vittime della violenza tra le pareti domestiche e nei luoghi di lavoro. I funerali di Dal Pozzo si svolgeranno a Roma, nella chiesa Mater Dei, in via della Camilluccia 120, martedì 17 alle ore 10.30. Nel 1988, il Telefono Rosa nacque come sportello temporaneo del Comune di Roma, diventando anno dopo anno il salvagente lanciato nelle acque tempestose in cui annaspavano donne disperate e bisognose di una mano tesa. Oggi il Telefono Rosa è una realtà autorevole, radicata con sedi in tutta Italia e un'attività che da accoglienza telefonica (oltre al proprio numero gestisce anche l'istituzionale 1522) è diventata più in generale di formazione alla cultura anti-violenza di genere. Fu per quella grande intuizione che Giuliana fu convocata nel 2007 dal presidente Napolitano per essere nominata Grande Ufficiale della Repubblica. Eppure Giuliana non veniva dal volontariato, ma dal giornalismo. Dopo una crescita professionale maturata nelle redazioni dell'Unità e di Paese Sera, tra la fine degli anni '60 e i '70 aveva affiancato e poi preso il posto di un'altra grande toscana, Miriam Mafai, alla direzione del settimanale Noi Donne, organo ufficiale dell'Unione Donne Italiane. Che, dalla fondazione nel 1944, viveva in quegli anni, di pari passo con l'emancipazione della figura femminile, il suo picco di diffusione. Con Giuliana al posto di comando, Noi Donne si trasformò da organo "ufficiale" in una rivista in grado di interpretare i tempi e anticipare i temi forti di un femminismo ancora sotto traccia. Ed ecco Giuliana sfogliare, attraverso la posta delle lettrici, il divorzio, l'aborto, la contraccezione. Una rubrica ventennale, la posta di Giuliana, diventata il racconto in soggettiva di grandi trasformazioni nel costume, nel linguaggio, nel rapporto con l'altro sesso. Senza eccezioni: è del 1969 un'inchiesta sul maschio di sinistra che rompeva un altro tabù, mettendo in luce le ipocrisie della parte progressista. Poi l'intuizione nel 1988 del Telefono Rosa e l'apertura di uno squarcio su quello che le pareti domestiche sanno e non possono rivelare. Sulle donne vittime della violenza domestica e delle molestie nei luoghi di lavoro Giuliana pubblicò anche un libro, Così fragile, così violento (Editori Riuniti), che raccontava quell'inferno con le parole delle protagoniste. Storie che spesso restavano sulla pelle, quasi mai nei verbali degli operatori sanitari o delle forze dell'ordine. Il Telefono Rosa consisteva in una stanza con cinque volontarie armate di quaderno e penna ad alternarsi nell'ascolto delle chiamate e delle richieste di aiuto. Oggi le volontarie sono decine, mentre alla guerra del Telefono Rosa contro le violenze si sono arruolate avvocate penaliste e civiliste, psicologhe, mediatrici culturali di diversa nazionalità. Premio Saint-Vincent per il giornalismo, Giuliana Dal Pozzo ha anche firmato La donna nella storia d'Italia, vari saggi, un romanzo, Ilia di notte, scritto con Elisabetta Pandimiglio (Editrice Datanews), e il diario La Maestra. Una lezione lunga un secolo (Memori).

16 dicembre 2013

Ciao amici, con la seduta di questa domenica mattina, abbiamo finito il mini ritiro di tre giorni. 35 ragazze, senior, giovani e cadette hanno incrociato le lame tirando a 5 stoccate e a 15. Un buon ritiro che ha permesso alle ragazze di tirare con intensita' , alla ricerca della qualita'.
Da lunedi riprenderemo la settimana "tipo" di allenamento ; l' ultima prima delle feste natalizie. Ci alleneremo anche il 27e il 28. Per poi riprendere nell'anno  nuovo con un mini ritiro dal 3 al 5 gennaio.
Ciao

venerdì 13 dicembre 2013

13 dicembre 2013

13 dicembre....Santa Lucia....Ciao Ducci, ciao Luciano.

Santa Lucia, per tutti quelli che hanno occhi 
e gli occhi e un cuore che non basta agli occhi 
e per la tranquillità di chi va per mare 
e per ogni lacrima sul tuo vestito, 
per chi non ha capito. 

Santa Lucia per chi beve di notte 
e di notte muore e di notte legge 
e cade sul suo ultimo metro, 
per gli amici che vanno e ritornano indietro 
e hanno perduto l'anima e le ali. 

Per chi vive all'incrocio dei venti 
ed è bruciato vivo, 
per le persone facili che non hanno dubbi mai, 
per la nostra corona di stelle e di spine, 
per la nostra paura del buio e della fantasia. 

Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata 
e un ragazzino al secondo piano che canta, 
ride e stona perchè vada lontano, 
fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe, 
anche la solitudine. 


Franceso De Gregori

martedì 10 dicembre 2013

11 dicembre 2013

«È tutto pronto»: nuova frase di Riina mette
a rischio trasferta milanese di Di Matteo

Altri frammenti di conversazione sbobinati dalla Dia e inviati con urgenza al ministro dell'Interno Alfano: mercoledì il magistrato dovrebbe essere nel capoluogo lombardo.



PALERMO - Ore e ore di conversazione intercettate. E un'altra, l'ennesima, frase intimidatoria pronunciata dal boss Totò Riina nel carcere di Opera: «È tutto pronto, e lo faremo in modo eclatante». Per gli investigatori della Dia il padrino corleonese, mentre parla con un boss della Sacra Corona Unita, si riferisce al pm Nino Di Matteo, o meglio all'attentato che Cosa Nostra starebbe preparando per fermare il magistrato che indaga sulla presunta trattativa Stato-mafia. Come riporta stamane Il fatto quotidiano, questa frase sarebbe stata captata venerdì scorso dagli investigatori che stanno sbobinando le intercettazioni di Riina. Parole, quelle del boss, che farebbero pensare che il progetto di attentato al magistrato sia giunto a una fase esecutiva. È per questo che la notizia è stata comunicata subito alle Procure di Palermo e a quella di Caltanissetta, che indaga sulle intimidazioni al pm. E potrebbe far saltare la trasferta milanese del pm in programma per domani, mercoledì.
DA ALFANO - Sabato scorso i vertici dei due uffici giudiziari si sono riuniti e hanno deciso di rivolgersi al ministro dell'Interno Angelino Alfano, che li ha ricevuti domenica. Come prevede la legge in casi eccezionali, i magistrati hanno consegnato al ministro le intercettazioni di Riina: il codice di procedura penale stabilisce infatti che l'autorità giudiziaria possa trasmettere copie di atti di procedimenti penali e informazioni al ministro dell'Interno ritenute indispensabili per la prevenzione di delitti per cui è obbligatorio l'arresto in flagranza. Nella frase sentita venerdì Riina, che in un'altra conversazione aveva anche detto al boss della Sacra Corona Unita riferendosi a Di Matteo «tanto deve venire al processo», non farebbe riferimenti specifici a Milano, dove il pm è atteso per raccogliere una deposizione del pentito Giovanni Brusca. Ma la trasferta nel capoluogo lombardo è stata organizzata ed è nota da settimane, quindi ci sarebbe stato tutto il tempo di mettere in piedi eventuali atti intimidatori. Inoltre le condizioni di sicurezza dell'aula bunker non sarebbero ritenute ottimali. Di Matteo è già sottoposto a protezioni di «livello 1 eccezionale»: nell'ultimo Comitato Nazionale per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica che si è svolto a Palermo alla presenza di Alfano, si è discusso anche di potenziare la vigilanza attraverso spostamenti in un Lince blindato e dotando la scorta del pm del bomb jammer, un dispositivo che neutralizza congegni usati per azionare esplosivi.È per questo motivo che la trasferta di domani potrebbe saltare:all'udienza saranno in ogni caso presenti il procuratore Francesco Messineo, l'aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.
Da:  Il Corriere della Sera

lunedì 9 dicembre 2013

9 dicembre 2013

Ciao amici, un saluto da Tauber. Sabato a Mosbach le ragazze hanno partecipato al 1 Open . Ha vinto la Golubytskyi davanti alla Wachter; al terzo posto Bingenheimer e l'ungherese Jesszenszky. Dal 5 all'8 posto si sono classificate: Ebert, Knapek, Kreiss e la Romanus.
Ho visto alcune cose interessanti altre che mi preoccupano un po'....ma le preoccupazioni sono figlie del pensare e del riflettere...e quindi va bene cosi!!
Auf Wiedersehen

venerdì 6 dicembre 2013

6 dicembre 2013

" UN VINCITORE E'  SEMPLICEMENTE UN SOGNATORE CHE NON SI E' MAI ARRESO "

N. Mandela

6 dicembre 2013

LE  TUE CONVINZIONI SONO I TUOI PENSIERI, I TUOI PENSIERI DIVENTANO LE TUE PAROLE, LE TUE PAROLE DIVENTANO LE TUE AZIONI, LE TUE AZIONI DIVENTANO LE TUE ABITUDINI, LE TUE ABITUDINI DIVENTANO I TUOI  VALORI, I VALORI DIVENTANO IL TUO DESTINO.

N. MANDELA

giovedì 5 dicembre 2013

6 dicembre 2013


La straordinaria avventura di Mandela, il guerrigliero che si fece icona di pace


PREMIO NOBEL per la Pace, condannato all'ergastolo, rinchiuso per 27 anni in un durissimo carcere, protagonista indiscusso della lotta contro l'apartheid. Con Nelson Mandela il mondo perde il simbolo universale della lotta per la giustizia e la libertà. Mai, in secoli di storia, c'è stato un altro uomo o un'altra donna che hanno speso gran parte della vita per sconfiggere le discriminazioni razziali e trasformare il loro paese, il Sudafrica, il Gigante africano, in una moderna democrazia. In queste ore l'intero pianeta piange la scomparsa di una figura mitica, allegra, spiritosa ma anche ossessivamente legata ad una disciplina che gli ha consentito di superare indenne dieci arresti, due processi e oltre un quarto di secolo di carcere durissimo nell'isola-prigione di Robben Island.

Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato "Madiba", titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell'importanza della scuola e dell'educazione.

E' convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all'epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell'apartheid.

Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s'iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all'African national congress (Anc). E' molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell'Anc.

Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell'Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell'Assemblea popolare.

Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E' diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l'inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l'assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell'Anc con l'accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.

Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell'apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L'Aids, che all'epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E' un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all'ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell'Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l'esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d'uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.

E' il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L'Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E' accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all'ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l'invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E' trasferito nell'isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l'apartheid.

Ma sarà il resto del mondo, scosso dall'atteggiamento di quest'uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell'embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell'inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all'11 febbraio del 1990. E' una data storica, una domenica: l'ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un'immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l'ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l'uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.

Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l'uomo che guidava il Sudafrica: "Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo". De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all'ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell'Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E' il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione  che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.

Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all'apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i "combattenti in armi". Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l'unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell'India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.

Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell'Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un'icona immortale. E' un uomo. Conserva la saggezza, l'equilibrio, la disciplina, la tenacia, l'ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E' molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: "Voglio dedicarmi alla mia famiglia". Lo farà con l'energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un'ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes.  Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.

Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di "Madiba". Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia.

6 dicembre 2013

PORCELLUM INCONSTITUZIONALE: I FUORILEGGE



Volete prima la notizia buona o quella cattiva? Ma sì, dai, cominciamo con quella buona: nell’ottavo compleanno del Porcellum, voluto nel dicembre 2005 dall’Udc di Casini, scritto da Calderoli, approvato da tutto il centrodestra e poi conservato anche dal centrosinistra, la Corte costituzionale ha finalmente stabilito che quella legge non è soltanto una porcata: è anche incostituzionale in almeno due punti, il premio di maggioranza del 55% dei seggi alla Camera per la coalizione più votata (senz’alcun tetto) e le liste bloccate con i candidati nominati dai partiti. Ne discende che sono, se non giuridicamente, almeno moralmente incostituzionali tutti i parlamenti eletti con quel sistema: quello del 2006 (maggioranza Unione), quello del 2008 (maggioranza Pdl-Lega) e soprattutto quello attuale, uscito dalle elezioni del 24-25 febbraio.
Dunque sono incostituzionali anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rieletto dai parlamentari incostituzionali, e con molti più voti del dovuto (quelli dei deputati Pd-Sel eletti dal premio di maggioranza ora cassato). E lo è anche il governo di Letta jr., che a Montecitorio gode di una vasta maggioranza dopata da quel premio ora caduto: decenza vorrebbe che i deputati in sovrappiù decadessero e andassero a casa. Insomma, tutto il sistema è fuorilegge. E, se avesse un minimo di dignità, procederebbe a una rapida eutanasia per riportarci al più presto alle urne con una legge elettorale finalmente legittima: una nuova, se mai riusciranno a trovare uno straccio di accordo (che sarebbe comunque frutto di un Parlamento illegittimo); o quella disegnata ieri dalla Corte con una sentenza formalmente “caducatoria” (cancella premio e liste bloccate), ma sostanzialmente “additiva” e “paralegislativa” (disegna un sistema elettorale alternativo al Porcellum, che sarà valido al deposito delle motivazioni, visto che il Paese non può restare senza legge elettorale neppure un istante).
Naturalmente lo sapevano tutti che il Porcellum era incostituzionale. Ma si comportavano come se fosse legittimo. Fino alla suprema protervia di pretendere, dal Colle in giù, che un Parlamento e un governo porcellizzati riscrivessero la Costituzione. Con la complicità di decine di presunti “saggi”, anch’essi incostituzionali per contagio, che hanno screditato se stessi e l’intera categoria prestandosi alla controriforma. Ora almeno quella minaccia pare sventata. Ma sia chiaro che qualunque altra “riforma” (tipo quella della giustizia) sarebbe viziata dallo stesso peccato originale: quindi si spera che lorsignori ci risparmino altre porcate.
La cattiva notizia è che, a causa dell’insipienza dei partiti e del loro Lord Protettore e Imbalsamatore, la Consulta riporta le lancette dell’orologio indietro di vent’anni, riesumando l’ultima legge elettorale della Prima Repubblica: quella con cui si votò nel 1992, il proporzionale puro con preferenza unica (a parte lo sbarramento al 4% per l’accesso alla Camera e all’8 per l’accesso al Senato dei partiti non coalizzati). Quella sonoramente bocciata dall’82,7% degli italiani il 18-19 aprile ‘93 nel referendum di Segni & C. che introdusse il maggioritario (poi in parte recepito e in parte no dal “Mattarellum”). Le forbici della Consulta proprio questo fanno: trasformano il Porcellum da legge maggioritaria in legge proporzionale spianando la strada ai nemici del bipolarismo. Napolitano, Letta, Alfano e Casini in testa: i nostalgici dei governi che non nascevano delle urne, ma dagli accordi aumma aumma nelle segrete stanze dei partiti e del Quirinale.
Se, come dicono, Renzi e i 5 Stelle vogliono difendere il bipolarismo (“Morto il nano, ce la giocheremo noi e il Pd, e ne resterà solo uno”, tuonava Grillo), possono rendere un grande servigio al Paese: scrivendo insieme una nuova legge elettorale, col ritorno al Mattarellum o col doppio turno alla francese, che salvi il bipolarismo. Se invece ci faranno votare con la legge della Consulta, ci condanneranno a un futuro terrificante: quello dell’Inciucio Eterno.

Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2013

domenica 1 dicembre 2013

1 dicembre 2013

Ciao amici, buona domenica; ieri sera sono rientrato da Bochum, dove abbiamo partecipato alla gara di coppa del mondo under 20.  Leandra Behr e' stata la migliore delle tedesche, conquistando un ottimo 5 posto. La ragazza , al suo primo anno giovani, ha fatto una buona gara fermata nelle 4 dall'italiana Mancini, poi vincitrice della gara sulla francese Ranvier. Nelle 32 si sono fermate Tamina Knauer, sconfitta dalla Ranvier e Rahel Bartholme fermata dalla polacca Walczyk.
Sono molto contento del risultato ottenuto. Da domani pomeriggio si riprende; per tutta la settimana ci alleneremo con la nazionale ungherese che partecipera' all'open tedesco di Mosbach , l'esordio delle Senior per questa stagione.
Ciao