venerdì 17 settembre 2010

17 settembre 2010

Ciao Monica, ho letto questo tuo articolo su UDB è veramente bello complimenti.
Ciao


"Sole sul tetto dei palazzi in costruzione,
sole che batte sul campo di pallone e terra
e polvere che tira vento e poi magari piove..."
(Francesco De Gregori)



A volte il calcio sa raccontare storie bellissime, distaccate da quello che appare ogni giorno sotto gli occhi di tutti. Un calcio lontano mille miglia da intercettazioni, scandali, società che non sanno perdere. Questa l'avevamo già raccontata, ma ritirata fuori oggi da un cassetto appare ancora di più con le pagine ingillite, non dalla mancanza di memoria, ma dalla polvere che continua a sfiorare Kabul

La bellezza del calcio a volte si trova nello sguardo di un vecchio che assiste da bordo campo a 22 ragazzi che corrono dietro a un pallone. La bellezza che sta nei campi di periferia, polverosi, come nella canzone di De Gregori, dove gli spogliatoi sono in una baracca ampia come uno sgabuzziono, e tutti insime dentro non ci si sta. La bellezza sta nel vedere questi giocatori, mavidi di sudore, cercare un gol da raccontare la sera agli amici al bar. Di posti così ce ne sono tanti, per fortuna in Italia, anche se qui non sono così martoriati da eventi venuti da lontanto. E quel pallone è ancora liberazione, un calcio alla vita. Quello che raccontiamo sta dall'altra parte del mondo, un mondo che il calcio non se lo può permettere di vedere nemmeno sui televisori.

Kabul, Afghanistan, ore 16.

Le squadre stanno entrando in campo. La tensione è alta. Qualche militare armato appare sugli spalti, dove a guardare la partita ci sono si e no una cinquantina di persone. Per lo più vecchi. Qualcuno fuma sigarette pestifere, altri masticano delle foglie che dicono dargli forza, altri sorseggiano del tè alla menta. Fa caldo. La polvere che si alza dal campo crea piccoli vortici che salgono verso il cielo. La partita che si andrà a giocare non vale per qualche campionato. A dire il vero non vale nulla, se non per chi la gioca. A scendere in campo due squadre con nomi impronunciabili. Una veste maglie blu, ma ogni giocatore ha una gradazione diversa. Qualcuno poi esibisce la maglia della Francia campione del mondo nel 98, altri quella del Chelsea. L'altra invece appare molto più elegante. Veste di bianco e nero. Veste le maglie di una misconosciuta squadra, lontana, che gioca in serie A, in Italia. Già, l'Italia, miraggio distante anni luce da qui. Sogno di ricchezza, calciatori famosi, idoli lontani. Questa squadra veste con le maglie dell'Udinese, donate, da quanto abbiamo capito, da un militare della missione di pace presente. E di queste maglie ne vanno orgogliosi questi ragazzi. Le esibiscono come un simbolo, o forse solo un sogno di immedesimazione, in qualcuno che è sicuramente più felice. A Kabul, intanto in lontananza si sentono colpi di kalashnikov e mortai, che squassano la lentezza di un pomeriggio qualunque. Ma le squadre non sembrano nemmeno accorgersene. Qui nessuno ci fa più caso agli spari. E' l'ordinaria apatia della guerra. Non fai più caso a nulla. Cerchi la bellezza altrove, perchè se stai a sentire tutti i morti, allora ne esci pazzo. E poi la partita sta per cominciare. Ma subito salta all'occhio che non è una partita normale. A qualcuno manca una gamba, altri sono senza braccia. Sono tutte vittime delle mine anti uomo. Ragazzini che non sai se hanno 14 anni o 50. L'età qui non conta più. Ma negli occhi hanno tanta voglia di normalità. Anche se questa durerà solo 90 miserabili minuti.

La partita ha inizio. La squadra con indosso la casacca dell'Udinese sembra volersi subito affermare. Affamati di una vittoria cercano di assaltare la difesa avversaria. Qualcuno cade: non sta in piedi, sulle gambe. Ma si rialza. Vuole dimostrare che infondo si può raggiungere un goal, un traguardo anche menomati. Avanti allora. Ma nonostante le energie profuse, la tanto agognata rete non arriva. Bisogna aspettare. Far uscire l'avversario. Ma non succede nulla. Qualche vecchio in tribuna abbandona il posto. A una certa ora a Kabul è meglio rientrare a casa. Tutto sembra anonimo, anche il risultato. Ma a volte cercare qualcosa, con volontà ferrea, porta a qualche risultato. Alla fine, il gol arriva. L'Udinese afghana segna il goal della vittoria. Chi ha segnato, è senza un braccio: ma si alza la maglietta per esultare proprio come fanno i giocatori qui. Forse l'unica cosa che li accomuna. Poi la partita finisce. Su Kabul cala un tramonto rosso acceso. E' molto bello. Un altro giorno finisce. Ancora spari in lontananza. Ma presto sarà notte, e forse si potrà sognare ancora...

Quando il cuore senza un pezzo il suo ritmo prenderà
quando l'aria che fa il giro i tuoi polmoni beccherà
quando questa merda intorno sempre merda resterà
riconoscerai l'odore perché questa è la realtà
quando la tua sveglia suona e tu ti chiederai che or'è
che la vita è sempre forte molto più che facile
quando sposti appena il piede lì il tuo tempo crescerà
Sopra il giorno di dolore che uno ha
(Luciano Ligabue)



Ecco, domenica si gioca Udinese-Juve: qualcuno che non ha mai respirato il profumo dei campi di periferia, ha deciso che per limitare la violenza (chiassà se lo proporrà anche in Afghanistan),ha introdotto una tessera del tifoso: che non serve ad altro che a mischiare i tifosi che, sprovvisti di questpo strumento, vogliono comprarsi un biglietto dove meglio gli garba.

Così juventini e udinesi saranno assieme.

Tutti conosciamo che questi colori, seppur identici, portano con sé valori diversi. Quelli torinesi da sempre sono stati simbolizzati col potere economico e politico, quelli friulani col potere dei poveri, di chi vuole dire no e per farlo deve urlare, urlare urlare verso il cielo, sperando che qualcuno esista davvero lassù per riordinare il sistema delle cose.

Non crediamo, che seppur esista, abbia questi problemi: questi ce li possiamo tranquillamente superare da soli. Per prima cosa amando la propria squadra e non odiando l'avversario, chiunque esso sia. Non esiste un eaversario. Gli avversari siamo noi tsessi, i nostri limiti e i nostri difetti, che molte volte non vogliamo vedere e facciamo ricadere sugli altri.

Il secondo punto è onorare quella maglia lontana indossata con tanto amore da gente per i quali i miliardi di Ibrha sarebbero un lusso per intere generazioni. Che se gli pargli di sciopero non capiscono nemmeno cosa significhi. Ma amano quel che indossano, perché è qualcosa che li unisce.

Infondo il calcio non è tutto qui?

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