venerdì 17 settembre 2010

17 settembre 2010

Carlo Annese Gazzetta dello Sport : Intervista a Saviano

Una tosse cupa lo interrompe spesso mentre parla al telefono. Roberto Saviano è reduce da una polmonite («per i filtri marci dell’auto blindata», dice) che non gli consente di uscire dal rifugio segreto in cui vive, come se non bastasse la solitudine vigilata alla quale è obbligato da quando Gomorra è diventato un best seller planetario e lui il nemico numero uno della camorra. Non gli ha impedito, però, di partecipare a Sfide, in onda oggi su Rai 3 alle 23.10, per rievocare lo scudetto conquistato 19 anni fa nel basket da Caserta - la squadra di Gentile ed Esposito -, a riprova di una passione profonda per lo sport, testimoniata dai reportage sui ragazzi d’oro della boxe di Marcianise e sull’incontro con Leo Messi, che fa parte dell’ultimo libro La bellezza e l’inferno.

«Nel ’91 avevo 12 anni. Veder vincere quella squadra, composta da ragazzi del posto, cambiò la percezione del territorio. Fu una riscossa. Significò che qui il talento può avere uno sbocco; che esiste una realtà che non ha bisogno dell’aiuto di un politico, ma vince con le proprie forze; che non si è solo una provincia sconosciuta in mano alla malavita. Lo stesso vale per le medaglie olimpiche prodotte a Marcianise in palestre puzzolenti di scuole medie che nessuno crederebbe esistano ancora».

Lei le conosce bene avendole frequentate.
«Da ragazzo ho praticato basket, boxe e anche pallanuoto, ai tempi del Volturno, ma senza eccellere. Per il basket sono alto appena 1.70 e tiro male; a pallanuoto m’ispiravo a Manuel Estiarte, un genio: ero alto quanto lui e magro,maevidentemente non è bastato. Nel pugilato ho avuto uno dei migliori allenatori al mondo,Mimmo Brillantino, maestro di campioni olimpici. All’inizio anche lui credeva in me, poi un giorno mi ha fatto sorridere dicendo: "Robbe’, mi sa che devi soltanto scrivere", come a dire che il ring lo avrei potuto frequentare esclusivamente per migliorare il fisico».


Roberto Saviano, 31 anni il 22 settembre, una vita da fantasma. È quello che continua a fare?
«Se non mi allenassi, sarei finito. La mia vita è declinata in due sole espressioni: o esisto in pubblico - su un giornale, in tv - o non esisto, perché sono rinchiuso, blindato. Fare sport è l’unico modo che ho per sentire di essere reale, non solo una foto o un video su YouTube. Faccio boxe da anni. Con difficoltà, vedo ogni tanto Brillantino; mi sono allenato per un po’ grazie alla polizia nella palestra degli atleti olimpici. Continuo a essere un pessimo boxeur, ma a volte penso che, se dovessi mai affrontare su un ring un collega scrittore o giornalista, beh avrei buone speranze di vincere».

Nello scudetto di Caserta c’è lo stesso spirito di Leo Messi: nulla è impossibile.
«Mi attirano le sfide impossibili. Non amo lo sportivo perfetto. Cristiano Ronaldo, per dire, non mi piace: carino, con il muscoletto e il tocco giusto. A me piacciono gli sghembi: Garrincha, Eusebio, Maradona. Uomini che hanno avuto difficoltà fisiche, sociali e lo sport ha salvato; persone che hanno dimostrato che ce la si può fare. Guardare a queste storie mi ha sempre dato coraggio: sono costellazioni che aiutano a navigare nel quotidiano».

Lo sport, dunque, può dare speranza?
«Può essere fondamentale per dare disciplina ai ragazzi: palestre, campetti e stadi dovrebbero riempire il Sud ed essere sottratti a una precarietà che li espone alle infiltrazioni negative. Dall’inchiesta sulla Parmalat è emerso che le tangenti ai Casalesi per assicurarsi il mercato venivano pagate spesso a società sportive di organizzazioni criminali. Così, la criminalità si sta mangiando settori della crescita sociale che invece dovrebbero costruire rispetto e lealtà. Il calcio è profondamente infiltrato, come ha detto tempo fa don Ciotti: molti personaggi che circolano in quel mondo sono interfaccia delle organizzazioni calabresi e campane. Questo, i magistrati lo sanno bene. E non va dimenticato che Calciopoli è partita da Napoli e da due magistrati, Beatrice e Narducci, che hanno una formazione anti-mafia. E perché Napoli è da sempre una centrale per le organizzazioni per accedere al calcio che conta. Con De Laurentiis le cose sembrano cambiate, speriamo».

Segue le partite, la domenica?
«Sì. Sono grande tifoso del Napoli e della Nazionale, specie quando giocano calciatori meridionali. La squadra di Mazzarri mi piace, sembra essere sulla strada giusta. Però mi manca il contatto con la folla, sono isolatissimo ». Come si fa a vivere così? «Me lo sto chiedendo. Sono schiacciato tra due gigantesche forze: da un lato la sensazione che gli addetti ai lavori non mi sopportino più e credano che la mia sia una messinscena; dall’altro, gli inquirenti che mi avvertono di rischi e minacce, per cui devono aumentare il livello di protezione: adesso ho spesso 7 uomini che mi seguono. Tutto questo mi lacera dentro, e ciò chemi ha dato un baricentro negli ultimi anni è stato allenarmi. Quando non posso farlo, devo ammettere, sono facile preda di sconforto e depressione».

Quante volte si allena?
«Nei momenti più duri, anche tutti i giorni: 2 ore di corsa, 2 di sacco e guanti. Quando vengo spostato, salto intere settimane. Se vado all’estero, chiedo se c’è una palestra vicina».

Uno dei suoi miti è Maradona. Ora vorrebbe tornare a Napoli per festeggiare i cinquant’anni: è giusto perdonargli i debiti col fisco?
«Diego deve pagare, ma potrebbe essere trattato come tanti imprenditori nei cui confronti non c’è stata troppa severità. Bisogna farlo tornare, trovando un compromesso. Circondato da personaggi inavvicinabili, Maradona è un uomo saccheggiato, con visioni politiche da sedicenne (come l’amore per Castro e Chavez). Ma è anche intelligente, un grande comunicatore che ha intuito quali poteri determinavano gli equilibri nel calcio. Come Bono Vox nella musica, è uno di quei grandi personaggi che non lasciano solo una traccia nella sua arte, ma attraverso la sua arte fa parlare anche di molto altro».

«Gomorra» ha fatto parlare di camorra nel mondo. Per questo lei è stato accusato, anche da calciatori come Cannavaro e Borriello, di aver evidenziato solo il peggio di Napoli.
«So che Cannavaro mi ha cercato per scusarsi e spiegarmi che non intendeva denigrare il mio lavoro. Piuttosto mi sembrano paradossali le parole di Borriello, per quanto abbia corretto il tiro ammettendo d’aver detto una cosa più grande di lui. Borriello è figlio di Vittorio, detto Biberon perché da ragazzino metteva la tettarella sulla bottiglia per bere la birra, ammazzato da Pasquale Centore, ex sindaco di San Nicola La Strada, narcotrafficante poi pentito. Centore disse di averlo fatto perché Biberon aveva chiesto interessi da usura del 300% sui prestiti. Le critiche di Borriello mi sembrano una contraddizione tutta italiana. Sono accusato di diffamare la città perché mostro cosa sta accadendo: per me, al contrario, diffama chi tace».

L’hanno definita, per questo, un eroe moderno, al pari di certi campioni. Si sente così?
«No, perché ho paura della parola eroe: si associa a un’idea di morte. Io sono vivo, voglio fare molti errori, scrivere ancora un sacco di fesserie, voglio divertirmi, riacquistare una vita normale. Tra pochi giorni compio 31 anni, a volte mi sembra di averne novecento».

Intanto ha lasciato Facebook per scrivere un libro.
«E questo ha scatenato la curiosità. Ho letto che mi occuperò di ’ndrangheta, P3, droga. Nulla di tutto questo e mi diverto a depistare: per scaramanzia, non lo dirò neanche a lei».

Pubblicherà ancora per Mondadori, malgrado le polemiche sul premier-editore?
«Mi sono trovato bene con la casa editrice e con chi ci lavora; il mio problema, oggi, è ovviamente con la proprietà. Vedremo ».

Che cosa farà il giorno in cui non sarà più blindato?
«Ci penso continuamente. Vorrei vedere una partita di calcio e giocarne una, anche se sono un mediocre libero. Poi farei una corsa sul lungomare, magari atteggiandomi un po’ con le mani fasciate, come fanno i pugili, per sentirmi più duro».

Carlo Annese

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