lunedì 2 novembre 2015

2 novembre 2015

Pasolini, quando il calcio era cultura

Oggi il pensiero corre al grande scrittore scomparso 40 anni fa

Quand’è che questo calcio ha smesso di appassionarci? Quand’è che l’attesa della domenica è passata da rito imprescindibile che scandiva le nostre vite a momento di sopportazione, noia, quasi fastidio?
Forse siamo soltanto invecchiati e favoleggiamo un calcio più semplice, ma capace di suscitare emozioni genuine: quello con i numeri in campo dall’1 all’11, con l’orario d’inizio alle 14.30 per tutti, con le divise di gioco senza variazioni di colore incommentabili…
I calciatori con le facce scavate, vecchi già a 30 anni, senza creste colorate o tatuaggi da Maori, con qualche ‘cavallo pazzo’ eccentrico che era però l’eccezione e non la regola. E, magari, più attenzione verso le componenti che oggi sono state completamente sacrificate a favore del puro e semplice profitto: la passione, il senso di appartenenza, il divertimento. Quello ci manca!
Un calcio che non diverte, non ha ragione di esistere. Hai voglia a mettere su stadi-astronavi con spazi per Vip, o portare le telecamere fin dentro l’intimità dei giocatori. Se la partita è brutta, se nessuno dei calciatori dimostra che quello che sta facendo non è solo ‘timbrare il cartellino’, puoi metterci anche quattro commentatori alla volta, con il tono di voce sempre più alto, ma il risultato per lo spettatore non cambia.
Questo calcio, a uno come Pier Paolo Pasolini - scomparso 40 anni fa - probabilmente non sarebbe piaciuto per nulla. Creatura diretta di quella società dell’omologazione che non smise mai di attaccare in vita, nella sua opera letteraria, il pallone di oggi è lontano anni luce da quel senso genuino di sfida capace di coinvolgere sia fisicamente che emotivamente: sparito, andato, come le ‘lucciole’ cancellate dall’inquinamento della società di consumi di un antico (ma sempre attuale) scritto del poeta di Casarsa.
Grande appassionato di pallone, ala destra per vocazione e struttura fisica, Pasolini – che si dichiarò tifoso del Bologna, sua città di nascita - non perdeva mai occasione per portare il pallone dove dovrebbe stare: tra la gente, nelle strade. La famosa foto del poeta di Casarsa in giacca e cravatta in un campetto di periferia riporta alla memoria dei più attempati le domeniche fuori porta di qualche decennio fa, col pallone da calcio sempre nel baule dell’auto per improvvisare una partitella ovunque, con chiunque, con qualsiasi tempo (altre che ‘stadio coperto’!).
Quel calcio fatto di immediatezza e consapevolezza, lontano dai lustrini e dalle banalità in serie, è lo stesso che giocavano i grandi campioni, prima di diventare tali, magari su una spiaggia o su una strada polverosa, senza sponsor né merchandising. Un momento di unione e di sfida condivisa persino dalle rockstar (le foto dei Pink Floyd schierati come ‘squadra’ e le immagini di Bob Marley che addomestica un pallone nel cortile di casa sua col la band sono storia!) nei tempi in cui le ‘star’ non si trovavamo su un campo di calcio. O, se c’erano, era perché se lo meritavano, per davvero.
Andrea Ioime
Tratto da Udinese Blog

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