Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica.
Siccome nell’Eugénie Grandet, Balzac mette in guardia dall’adulazione (“Non appartiene alle anime grandi, ma è appannaggio di quelle meschine. L’adulazione presuppone un interesse“), non diremo a Stefano Rodotàche moltissimi rimpiangono la sua mancata elezione al Colle. Ma forse è solo la verità dire che ora, nei tempi delle riforme costituzionali last minute, l’Italia avrebbe bisogno di quel garantismo che è stata la cifra di una lunga esistenza. E che viene da lontano. “L’unico momento in cui mi sono visto riconoscere una sorta di continuità genetica con l’origine arbëreshe dei miei avi fu quando Cesare Luporini mi disse: ‘Ho capito tutto questo tuo garantismo, vieni da una minoranza oppressa’. Anche se non posso dire di essermi portato dentro un pezzo di quella cultura“. Soprattutto ci sono i libri, nei ricordi del professore. Una casa, quella dei nonni a Cosenza, invasa da volumi catalogati, stanza per stanza, in ordine cronologico. “Da ragazzino, li divoravo, soprattutto quelli di varia letteratura, storia e filosofia. Quelli di diritto invece li snobbavo proprio”.
Poi però ha scelto Giurisprudenza.
“Mi domando ancora oggi perché. Gli unici due zii che avevano studiato Legge si erano laureati ma poi avevano fatto altro. M’interessava il rapporto con la realtà, come si organizza lo Stato. Mi sono convertito al Diritto privato per Alberto Asquini, le cui lezioni di Diritto commerciale erano apparentemente noiosissime, ma dimostravano dall’interno come funzionava il meccanismo del diritto. Poi mi sono laureato con Emilio Betti, un grandissimo giurista: uomo severissimo e rigorosissimo. C’è un paradosso, perché entrambi erano stati molto legati al fascismo: Asquini era stato addirittura sottosegretario. Betti si era esposto durante la Repubblica di Salò, con articoli sul Corriere della Sera in cui giustificava le esecuzioni dei partigiani con argomentazioni giuridiche e formali. Lui era marchigiano, nei giorni della Liberazione, a Giuseppe Ferri – partigiano e docente di Diritto commerciale – dicono: ‘Hanno preso un professore’. Ferri capisce subito che si tratta di Betti, si precipita dal comandante della brigata partigiana e gli dice: ‘Ma è un professore, lasciamolo perdere’. Quello gli dice: ‘Il tuo professore ha scritto cose gravissime, adesso lo fuciliamo’. Vanno a parlargli. E Betti ripete le sue tesi, parola per parola. Alla fine questo contadino comandante partigiano dice a Ferri: ‘Il professore non ci sta con la testa, portatelo via
La mia vicenda accademica è stata poi segnata dall’incontro con Rosario Nicolò, uomo generoso e aperto all’innovazione culturale. Cos’era Roma per un ragazzo che arrivava dalla Calabria negli anni Cinquanta? Per me era la Biblioteca nazionale, era andare al cinema. Precisamente al Circolo del cinema Charlie Chaplin, che era quello di sinistra i cui spettacoli si tenevano la domenica mattina al cinema Rialto in via IV Novembre: tu andavi lì e incontravi Moravia e Pasolini. A Roma c’era un’infinità di cose da fare, da vedere. Sono partito da Cosenza con una certa premeditazione. Non volevo tornare. Poi c’è stato l’incontro con la politica: al terzo anno, non avevo ancora compiuto ventun’anni, scopro che esiste l’Ugi, l’Unione goliardica italiana. M’incuriosiva. Allora l’Ugi si trovava a metà di via del Tritone, in un palazzetto dove c’era la sede dell’Associazione italiana per la libertà della cultura presieduta da Ignazio Silone. Arrivo e in fondo alla sala si alza un tipo, piccolino, e mi viene incontro: era Tullio De Mauro. Così entro in questo giro e chi conosco, tra i primi? Marco Pannella. Comincio a frequentare l’Ugi, che nel frattempo si dota di una giunta, presieduta da un cattolico, e io divento vicepresidente degli organismi rappresentativi, cioè del parlamentino. C’erano anche fondi a disposizione: insomma era un piccolo partito universitario. Presiedo l’Unione goliardica romana, quando Togliattidecide di sciogliere l’organizzazione universitaria comunista e di far confluire gli iscritti nell’Ugi, che era molto laica. All’interno dell’Ugi c’erano molte resistenze ad accogliere i comunisti. Ed è proprio l’associazione romana a fare da cavia, per vedere come vengono accolte le domande dei comunisti. I primi ad arrivare sono due ragazzi che si chiamano Alberto ed Enzo. Di cognome Asor Rosa e Siciliano. Marco Pannella invece era liberale, ma a me non interessava. A quel mondo mi sono avvicinato, perché m’interessava molto Ugo La Malfa, che ho conosciuto bene nonostante la differenza d’età. Era un vero politico, di straordinaria vivacità. In realtà nemmeno il Partito repubblicano m’interessava. Però il Partito radicale sì.
Ci arrivai attraverso Il Mondo. Marco mi dice: ‘Raimondo Craveri fa una rivista, Lo spettatore italiano, andiamo a trovarlo’. E così andiamo in questa casa bellissima di piazza Santi Apostoli. Lì conosco Elena Croce, figlia di Benedetto e moglie di Craveri: una donna intelligentissima, spiritosa, interessatissima ai giovani. Elena un giorno annuncia a me e Tullio: ‘Voglio presentarvi Pannunzio‘. Così andiamo in via di Campo Marzio dove c’era la sede del giornale. Pannunzio era circondato da una fama di grande intransigenza: aveva fatto riscrivere l’articolo sui fratelli Cervi a Einaudi, presidente della Repubblica. Non concedeva niente a nessuno. A un certo punto dell’incontro ci dice: ‘Pensate a farmi qualche proposta’. Avevo ventitré anni. Il Mondo per noi allora era una passione quasi morbosa, avevamo un’adorazione per questa impresa straordinaria. Tanto che andavamo alla stazione, la notte prima dell’uscita del giornale, a comprare le copie appena arrivate in edicola.
E fece qualche proposta a Pannunzio?
Certo! Scrivo subito un articolo sulla mia facoltà, e lo porto in redazione. Due settimane dopo compro Il Mondo e in prima pagina di spalla c’è il mio articolo. Titolo: “L’ideale dei mediocri“. Sono quasi svenuto! A questo punto sono stato ammesso in quel circolo. Non ho scritto tanti articoli, ma moltissimi taccuini, cioè i commenti anonimi ai fatti della settimana che stavano nella seconda pagina. Una cosa che per me era motivo di orgoglio assoluto.
E Silone che tipo era?
Una persona scostante e molto antipatica. A un certo punto lui non voleva noi ragazzi tra i piedi. E allora dovemmo cercare un’altra sede. C’era il Centro culturale di Comunità, voluto da Adriano Olivetti anche a Roma, in via di Porta Pinciana 6, dove si trasferì l’Ugi e dove io passai veramente un pezzo della mia vita: ci andavo tutte le sere. E ogni tanto faceva una visita Olivetti che mi prese in grandissima simpatia. Facevamo lunghissime chiacchierate. Qualche volta passava Guglielmo Negri, che dirigeva il Centro di Comunità. E diceva: “Ingegnere, non si faccia incantare da Rodotà. Guardi che qui all’Ugi ogni tanto i libri se li rubano!” E lui: “Li rubano? Ma allora vuol dire che li leggono”. Aveva un po’ ragione e un po’ no: eravamo tutti senza una lira e qualcuno se li rivendeva pure. Un anno dopo la laurea, vado in Inghilterra. È il 1957. Mi arriva una lettera di mio padre che mi dice: “Caro Stefano, ha telefonato l’ingegner Adriano Olivetti. Dice che se vai alla Barclays Bank di Londra c’è una cosa per te”. In banca c’erano trecentomila lire, un regalo per una persona che lui stimava. Al mio ritorno, Olivetti m’invita a Ivrea. Parto da Roma e viaggio tutta la notte. Arrivo a Ivrea in una giornata di novembre gelida, nebbiosa. Non era certo Ivrea la bella di Gozzano! A ricevermi c’è Ottiero Ottieri, che poi avrebbe raccontato questa sua esperienza di reclutatore in Donnarumma all’assalto. Ottieri invece di invogliarmi, mi fa un discorso sulla tristezzadell’intellettuale chiuso a Ivrea. Alla fine dissi no, anche se l’offerta economica era molto generosa. Avevo deciso che quello che mi piaceva fare era studiare. Ero già assistente, non avevo un incarico fisso, ma allora lacarriera universitaria era scandita dai tempi e uno si poteva programmare la vita, non certo come adesso. Ho avuto la fortuna di poter fare quel che più mi piaceva, in primo luogo nella ricerca e nell’insegnamento, con un progetto di reintegrare il diritto in un più largo contesto culturale che mi sono poi portato in giro per il mondo.
La passione per la politica continua.
È stata intensissima negli anni universitari, ed è proseguita nel rapporto col Mondo. Quando il giornale diventa il motore della scissione nella sinistra liberale e della costituzione del Partito radicale, io che non avevo mai bazzicato nei partiti, trovo l’esperienza interessante. Il Mondo si schiera fortemente a favore della Legge truffa, su cui mia moglie ha scritto un libretto. Carla ogni tanto mi dice: “Ma che cosa ho fatto! Ho trattato così male dei signori perbene. Guardando cosa succede oggi con il Porcellum e tutto il resto, dovrei chiedere scusa!”. Comunque Il Mondo si schiera incondizionatamente a favore della Legge truffa. La frase: “Turatevi il naso e votate i laici alleati con la Dc” è di Gaetano Salvemini, che la dice in quell’occasione. Ma allora io stavo dalla parte di quelli che si opponevano. Il riferimento per me fu il raggruppamento creato da Parri, Calamandrei e Jemolo, cioèUnità popolare, che fu importante per impedire che scattasse il 50,1 per cento che avrebbe dato il tanto vituperato premio di maggioranza che, paragonato alle attuali proposte, era un modello di democrazia.
La sua carriera di commentatore comincia allora?
Nella prima fase del Partito radicale sono stato molto attivo. Con il caso Piccardi – ex ministro del governo Badoglio, di cui si scoprì la partecipazione a un convegno con i nazisti – il partito si spacca. E Marco ne raccoglie la bandiera con Ernesto Rossi. Ma io non li seguo. In quegli anni comincio a scrivere sui giornali: prima per Il Globo, diretto daAntonio Ghirelli e sul quale scriveva mia moglie, poi per Il Giorno di Afeltra, poi su Panorama, dove ho tenuto una rubrica settimanale fino all’avvento di Berlusconi. Ogni settimana ricevevo reazioni, molte telefonate di politici. In quegli anni ero molto vicino al Partito socialista di De Martino, anche se non sono mai stato iscritto: ho collaborato allora con vecchi amici come Giuliano Amato, Enzo Cheli, Federico Mancini, Gino Giugni, Gianni Ferrara. Ricordo benissimo uno dei primi scioperi della fame di Pannella. Una notte suonò il telefono tardissimo: era De Martino, preoccupatissimo. “Rodotà, faccia qualcosa. Quello mi muore”. Una volta scrissi una rubrica per criticare Pertini, allora presidente della Camera, che non convocava il Parlamento in seduta comune per eleggere un giudice costituzionale. La questione riguardava Lelio Basso, sul quale c’era un veto della Dc e soprattutto una fortissima e antica antipatia di Pertini. Un giorno alzo il telefono: “Mi dicono che tu sei un compagno”. Era Pertini, che voleva spiegarmi le sue ragioni. E io gli risposi: “Anche a me dicono che tu sei un compagno. Ma i compagni certe cose non le fanno”. Da questa furibonda litigata è nata una profondissima amicizia.
Perché decise di accettare la candidatura come indipendente del Pci nel ’79?
Quando cominciò la fase del terrorismo, io criticai duramente le posizioni incarnate da Ugo Pecchioli. Mi chiamò Pannella e mi offrì la candidatura. Marco lo conoscevo molto bene. Gli ho sempre riconosciuto grandi meriti: nelle sue battaglie ci ha messo tutto, anche il corpo. Però era un autocrate, non ha mai permesso che si costruisse nulla. Decise di fare l’operazione di apertura al Movimentosociale, perché riteneva che in quel momento, dopo le battaglie su aborto, divorzio, obiezione di coscienza, il partito potesse avere una capacità attrattiva verso quel mondo: non potevo candidarmi con loro. A questo punto mi chiama Luigi Berlinguer: premetto che io mi ero pubblicamente schierato contro la Legge Reale e le norme “a tutela dell’ordine pubblico”. Erano i tardi anni Settanta, gli anni di piombo, io ero convintamente garantista. Ricordo un articolo di Paolo Mielisull’Espresso in cui prendeva in giro il partito dei garantisti: “Segretario Mancini, vicesegretario Rodotà”. Erano momenti difficili di minacce e accuse, mi dicevano “difensore dei terroristi”. Luigi mi dice che l’altro Berlinguer, Enrico, mi vuole vedere per propormi una candidatura. Ma io volevo incontrare Pecchioli, che era esattamente dall’altra parte. Il 6 aprile 1979 entro per la prima volta a Botteghe Oscure. E gli dico: “Senta voglio capire i motivi di questa offerta, visto che ho preso posizioni pubbliche molto nette, facendo nomi e cognomi tra cui il suo”. Pecchioli mi dice: “In questo momento le tue posizioni su diritti e garanzie ci interessano. Però se tu avessi preso posizioni diverse sul caso Moro, non te l’avremmo chiesto”. Ero stato anch’io, come Repubblica, sostenitore della linea della fermezza, cioè ero contrario a ogni trattativa con i terroristi. Il che non mi aveva impedito di avere rapporti con la famiglia quando si cercò la via di una trattativa non con lo Stato, ma tramite terzi, come la Croce Rossa. L’idea di andare in Parlamento m’interessava: un giurista ha delle carte da giocarsi. Così decido di candidarmi. Pannella divenne una belva, Gino Giugni e Giuliano Amato erano molto sconcertati.
L’impatto con la Camera?
Ci ho messo quasi un anno a capire dove stavo: c’era un’altissima professionalità parlamentare, non si improvvisava. Si studiava, non si andava a orecchio: bisognava stare al passo. Ho discusso infinite volte con Nilde Iotti. Le dicevo: “Nilde, la maggioranza si tutela con i numeri che ha, tu devi tutelare le minoranze“. Le minoranze erano le opposizioni, cioè il Pci. Ma lei non voleva dare l’impressione di avere un occhio di riguardo e poi non condivideva alcune forme di lotta parlamentare, come l’ostruzionismo. C’era un’idea del Pci, molto condivisa anche da Giorgio Napolitano, che le istituzioni dovessero funzionare. Ma come presiedeva Nilde Iotti… Aveva un’autorevolezza, qualcuno le imputava perfino un’aura regale. Entrava in aula spaccando il secondo, non tolleravasbavature. Tutto quello che abbiamo visto in questi anni – cartelloni, magliette, la mortadella, il cappio – con lei non sarebbe potuto accadere.
In quegli anni il capo dello Stato era Francesco Cossiga. O meglio, Kossiga.
I miei rapporti personali con Cossiga fino a un certo punto sono stati eccellenti. Chiamava così spesso a casa che a volte i miei figli si dimenticavano di riferirmi che mi aveva cercato. Mio padre ogni tanto mi chiamava e diceva: “Stefano, mi ha telefonato ilpresidente della Repubblica, dice che ti ha cercato ma tu non lo richiami. Richiamalo”. Lui era così. Certe sere, siccome c’è la regola che nessuno se ne può andare prima del presidente, Carla gli diceva: “Presidente, sono le tre, ho sonno”. Telefonava: “Vengo a fare una passeggiata in montagna con voi”. Purtroppo
i suoi metodi erano inaccettabili. Minacciava le persone, faceva delle vere mascalzonate. Mi chiamava e mi diceva: “Dì ai tuoi amici di Magistratura democratica che se non la piantano con la storia della massoneria, faccio l’ira di Dio”. Quando andò a occupare il Csm, io ero lì. Disse contro di me: “Rodotà pratica l’indipendenza al Csm, ma non nelle piazze della Sardegna“. E citò delle località dove io ero appena stato: più che una coincidenza.
Come sono stati gli anni di Tangentopoli visti dal Parlamento?
Già prima di Mani Pulite, il Parlamento era diventato un luogo guardato con sospetto, non più con rispetto. La sera in cui si diffonde la notizia che la Camera aveva negato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, esco dal Parlamento e m’imbatto in gruppi di persone furibonde: ho dovuto dire a tutti che io avevo votato a favore, erano fuori dalla grazia di Dio. Sostenere che la famosa serata delle monetine è stata organizzata è una sciocchezza. La protesta era già montata. Un giorno Vito Laterza mi chiama e mi dice: “Gianni Barbacetto ed Elio Veltri hanno scritto un libro sugli scandali della politica milanese, faresti la prefazione? Bobbio non ha voluto”. Io lo leggo, lo trovo interessante e scrivo. Apriti cielo: vengo addirittura deferito al collegio dei probiviri del partito, perché in quel libro veniva chiamato in causa anche il Pci milanese. E secondo loro come presidente del Pds non avrei dovuto scrivere la prefazione. Poi la cosa davanti ai probiviri si risolve in niente, e si scopre che il Pci milanese era coinvolto nelle vicende di Tangentopoli. Su questo ho avuto molti scontri con i vertici del Pci.
Ce li racconta?
Io vengo eletto presidente del Pds perché loro sbagliano i conti al congresso di Rimini e Occhetto non viene eletto, perché la maggioranza era troppo alta. Si rinvia tutto e comincia un assedio a me perche´ accetti di fare il presidente. D’Alema insiste molto, Ingrao anche. Tant’e` che vengo eletto con maggioranza bulgara. Ma non serve a tenere insieme il partito e soprattutto a fare quello che secondo me era implicito nella Bolognina, e cioè l’apertura all’esterno. Mi ostacolano in ogni modo: il cambiamento del nome sì, l’autocritica sì. Ma chi aveva in mano il partito, voleva gestirlo esattamente come prima. Allora il partito discuteva moltissimo. Io proposi che le commissioni di lavoro fossero composte per metà da iscritti e per metà da esterni. Tutti contrari. E dicevo: ma guardate che nessuno vi verrà a chiedere nomine o candidature. La verità è che mi hanno sempre considerato un corpo estraneo. Già Berlinguer aveva sollevato la questione morale. In quell’intervista a Eugenio Scalfari parlava anche al suo partito. Per me era assolutamente evidente. Io so, perché negli ultimi anni ebbi rapporti assidui con Enrico, che voleva fare pulizia nel partito, ma anche che voleva valorizzare il contributo esterno. Ricordo il mio ultimo intervento come presidente del Pds: chiesi che il partito convocasse un’assise sulla corruzione, con gli amministratori locali. C’erano stati casi, non solo a Milano.
Prima ha citato Napolitano. In che rapporti siete?
Ho avuto divergenze e buoni rapporti con Napolitano, fino a ieri. Anche la vicenda della presidenza della Camera nel ’92 non l’ho mai personalizzata. Sono stato il primo a congratularmi con Napolitano per la sua elezione al Quirinale. Ci sono stati rapporti cordialissimi: è venuto alle nostre nozze d’oro, siamo stati spesso al Quirinale e Castelporziano. Nella questione della mia candidatura al Colle, non ho mai pensato che avrebbe portato alla mia elezione. Però pensavo che potesse dare una scossa, per uscire dalla prigionia delle larghe intese. Soprattutto, in quel momento, la rielezione di Napolitano non era nemmeno ipotizzata. Sulla vicenda delle riforme ho sempre sostenuto la loro necessità, anche in Parlamento, fin dal 1985, a cominciare dall’eliminazione del bicameralismo perfetto. A condizione però di tutelare sempre i principi fondamentali della Costituzione, di cui il presidente della Repubblica dovrebbe sempre ricordare il necessario rispetto.
Secondo lei Renzi avrà la forza di concludere questa riforma?
Spero di no, ma ormai c’è un intreccio d’interessi che va oltre. Capisco che l’espressione “autoritarismo” abbia dato fastidio, ma evidentemente abbiamo toccato un nervo scoperto. Questa parola ha svelato che il re è nudo: quel che si vuole fare è modificare la Costituzione in maniera assolutamente illegittima, per realizzare un accentramento dei poteri mascherato con l’esigenza
della governabilità. Se passano l’Italicum e questa riforma costituzionale la democrazia parlamentare è superata. E questo non si può fare. Io vedo un’enorme fragilità di questo governo. La riforma è peggio di quella che aveva voluto Berlusconi.