giovedì 29 novembre 2012
29 novembre 2012
Blog di Flavio Tranquillo
Omertà: il tifo che non sappiamo fare
di Flavio Tranquillo
28 novembre 2012
Leggo che un calciatore dice che «Ciò che succede nello spogliatoio deve restare lì. Io non faccio il delatore, ma non mi volto. In silenzio, lo ammazzo di botte». Sta parlando di un ipotetico compagno che ha venduto una partita. Facciamo lo sforzo di ignorare il suo nome, il suo datore di lavoro e la sua persona in quanto tale. Non è certo mettendolo in croce o (peggio) difendendolo per questioni di appartenenza che possiamo discutere costruttivamente del concetto espresso.
Ci interessa solo il fatto che, in quanto calciatore, tutto quello che dice viene amplificato a dismisura. Questo, en passant, non significa che abbia responsabilità maggiori delle nostre. Come dice Charles Barkley, ex-stella NBA, “non voglio essere un modello per gli altri perché gioco bene a basket. Conosco decine di spacciatori che schiacciano”. Siccome però non sono assolutamente d’accordo con lui provo a contro-argomentare, nella speranza che tutti si interroghino su un tema fondamentale. Senza la pretesa di insegnare alcunché a chicchessia.
Il vocabolario, alla voce “omertà”, riporta queste due definizioni: 1) Regola della malavita organizzata e consuetudine culturale dei luoghi da essa dominati, che obbligano al silenzio sull’autore di un delitto e sulle circostanze di esso e 2) estens. Solidarietà interessata fra membri di uno stesso gruppo o ceto sociale che coprono le colpe altrui per salvaguardare i propri interessi o evitare di essere coinvolti in indagini spiacevoli e pericolose. Se la definizione sub 1) sembra (sembra …) lontana, la seconda ci riguarda tutti i giorni più volte al giorno. L’etimologia della parola viene dai più ricondotta allo spagnolo «hombredàd» (“virilità”), da “hombre” (“uomo”). In questo caso la voce sarebbe da interpretare come “comportamento, atteggiamento da ‘vero’ uomo”, rispettoso della “legge del silenzio”. Ora, immaginando che il calciatore in questione di tutte queste cose non abbia tenuto conto, rimane fortissimo il contenuto fortemente omertoso del comportamento che suggerisce.
E’ ovvio che il calciatore crede che un “vero uomo” si comporti così. Ma il vero coraggio sta invece nel denunciare, nell’esercitare quelle regole che possono rappresentare l’unico patto di convivenza vera e l’unica idea di società davvero civile. Perché denunciare un fatto singolo in modo che abbia una valenza generale è la vera misura del non voltare la testa dall’altra parte. La legge del branco e della jungla è sempre perdente, e in un paese che ha una presenza così pervasiva della criminalità organizzata, solo calibrare con maggiore consapevolezza i nostri comportamenti quotidiani può aiutare a vincere la partita più importante. Che con buona pace di tutti non si gioca in uno stadio, e se è per quello neppure in un palazzetto.
Il calciatore auspica il silenzio, ma non si ricorda che “si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno” , come disse profeticamente Giovanni Falcone. Quelle alleanze, quei sostegni, sono esattamente il tifo che non sappiamo fare. Guardiamoci dentro come ha fatto Rita Atria quando, prima di suicidarsi, ha scritto che “prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi”. Discutiamo senza paura e pregiudizi di tutte quelle arretratezze culturali che ci hanno trasmesso ed abbiamo supinamente e colpevolmente accettato. E, forse, concluderemo che non si può risolvere tutto con una manica di botte. E che la legge della jungla, come l’omertà, fa proprio schifo.
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