La lama spezzata
Non combatterò mai più:Matthias Behr, 19 luglio 1982
Senza considerare il periodo bellico e le cadenze olimpiche, è dal lontano 1921 che i campionati mondiali di scherma si svolgono regolarmente ogni anno in una località sempre diversa.
Un’eccezione venne applicata però a quelli dell’edizione 1982, quando la FIE, Federazione Internazionale della Scherma, scelse la città di Roma per la seconda volta nella storia. E diversamente dalla prima, che si tenne nel 1955 al Palazzo dei Congressi dell’Eur, in questa occasione la sede della manifestazione venne affidata alla cornice, di qualche anno più moderna, del Palazzo dello Sport (oggi ribattezzato col nome indigeribile di PalaLottomatica, in omaggio allo sponsor), sempre nel quartiere dell’Eur.
Durante i dieci giorni dei campionati del mondo, tra il 15 e il 24 luglio 1982, tutta Roma era stata assalita da un’ondata di caldo africano. Ma all’interno del Palazzo dello Sport l’aria condizionata riusciva a creare un’atmosfera di primavera artificiale. E al riparo dalla canicola le competizioni, sia maschili che femminili, si susseguivano per tutte e tre le armi, fioretto, spada e sciabola, su un livello tecnico decisamente elevato, con le solite scuole francesi, ungheresi, tedesche, sovietiche e italiane, a dominare le scene.
Nella suggestiva gara di fioretto a squadre, il lunedì del 19 luglio si era arrivati ai quarti di finale. E già alle undici del mattino la nostra squadra italiana aveva evaso seraficamente la formalità dell’incontro con la modesta formazione belga, guadagnandosi la semifinale con un ineccepibile 9-0. Pochi minuti dopo però, sulla pedana numero quattro, dirimpetto alla tribuna centrale, era cominciata una partita dall’esito decisamente più incerto, tra i campioni del mondo uscenti dell’Unione Sovietica e la Germania Occidentale. La vincente tra queste due nazionali avrebbe dovuto affrontare proprio l’Italia in semifinale.
I tedeschi stavano conducendo per 2-1, quando salirono a duellare gli atleti più rappresentativi delle due squadre. Per l’URSS era stata schierata la punta di diamante: il mancino Vladimir Smirnov, un ventottenne elettricista dell’Armata Rossa di stanza a Kiev, nato in un microscopico villaggio nella regione di Yaroslavl, che prima di approdare alla scherma aveva provato pressoché indiscriminatamente quasi tutti gli sport. Ma in soli otto anni di attività agonistica come schermidore vantava già un curriculum invidiabile. Dopo essere salito alla ribalta vincendo i campionati sovietici nel 1977, approdò alla medaglia d’oro olimpica nel 1980, e al titolo mondiale l’anno successivo. La sua avventura romana però non aveva avuto un inizio felicissimo, e nella gara individuale era già stato estromesso durante la fase eliminatoria. Proprio in questo incontro poteva trovare l’occasione di riscattarsi.
La Germania Ovest invece metteva in campo un atleta dalla biografia profondamente diversa da quella del suo avversario. Il tedesco Matthias Behr non era uno “schermidore per caso”. Nella sua famiglia la tradizione schermistica aveva radici profonde, e cominciò a tirare di fioretto e di spada fin dalla prima infanzia, indotto dal fratello maggiore Jochen. Con simili presupposti, è stato quasi inevitabile per Matthias scegliersi una professione che non gli poteva essere più congeniale: maestro di scherma nella sua cittadina natale di Tauberbischofsheim nei pressi di Stoccarda.
Per chi fosse un po’ a digiuno delle regole di questo sport, è il caso di ricordare che nella specialità del fioretto (come si deduce anche dal nome, quest’arma è più leggera rispetto alla spada e alla sciabola) solo il busto dell’avversario è valido come bersaglio. E all’epoca dei campionati di Roma 1982, nelle gare a squadre si disputavano al meglio sedici duelli incrociati tra tutti e quattro i membri delle due contendenti. Vinceva quindi la formazione che arrivava per prima a totalizzare nove punti. Mentre in ogni singolo duello prevaleva il concorrente che giungeva per primo alle cinque stoccate, facendo assegnare il punto alla propria squadra.
In quell’occasione Matthias Behr stava conducendo per 4 stoccate a 3, e gliene mancava solo una per aggiudicarsi la partita. Era molto concentrato, e dall’alto del suo metro e 94 sovrastava il sovietico, di dieci centimetri più basso e fisicamente meno possente, ma più elegante dal punto di vista stilistico.
L’orologio digitale del palasport segnava mezzogiorno e un quarto quando Vladimir Smirnov affondò l’attacco al tedesco, che rispose trascinandosi in un contrattacco impetuoso. Behr protese in avanti il braccio che reggeva il fioretto, e la sua punta arrotondata si stampò sullo sterno del sovietico protetto dal giubbotto corazzato. Sarebbe stato il colpo della vittoria. Ma Behr non ebbe il tempo di gioire. Sullo slancio irresistibile della sua azione, la lama d’acciaio dell’arma, lunga 90 centimetri, si inclinò a tal punto da spezzarsi come un ramo secco a due terzi dall’impugnatura. E il moncone, con la punta tagliente dalla forma del becco di un flauto, si indirizzò verso la retìna della maschera di Smirnov. Una delle deboli maglie metalliche cedette di schianto, e la lama la trafisse, infilandosi tra l’occhio e il sopracciglio sinistro, per poi penetrare di dieci centimetri all’interno della fronte.
Behr, resosi istintivamente conto di quello che stava accadendo, frenò di colpo la foga della propria azione, e ritirò indietro di scatto il braccio che teneva il fioretto spezzato. Ma era troppo tardi. Smirnov lanciò un grido che raggelò il Palazzo dello Sport, e con un ultimo riflesso fece appena in tempo a strapparsi la maschera dal viso, prima di accasciarsi sulla pedana.
I medici presenti, tra i quali soprattutto Marius Valsamis, professore di neurologia al seguito della formazione statunitense, si lanciarono subito a prestare i primi soccorsi e lo trovarono già privo di sensi, mentre dei fiotti di sangue gli uscivano dall’orbita sinistra e dalla bocca. A sirene spiegate venne trasportato al Sant’Eugenio, l’ospedale più vicino al quartiere dell’Eur, che però non era attrezzato per gli interventi di neurochirurgia, e quindi fu necessario un altro viaggio per trasferirlo al Policlinico Gemelli. Lì le prime analisi confermarono che la lama spezzata aveva provocato una lesione al lobo frontale del cervello.
Il fiorettista sovietico entrò immediatamente in coma irreversibile, e il giorno dopo i medici romani dovettero diagnosticarne la morte cerebrale. Solo le macchine lo tennero artificialmente in vita, permettendogli di respirare per altri nove giorni, finché il 28 luglio 1982, a campionato mondiale già finito, anche il suo cuore smise di battere.
Durante quei nove giorni di agonia i giornali occidentali dedicarono molto spazio all’incidente di Roma, ma in Unione Sovietica questo avvenimento venne praticamente rimosso dalle notizie sportive e non solo. Solamente sul periodico degli esuli russi in Francia, Russkaya Mysl (“Pensiero Russo”), nell’agosto 1982 venne pubblicato un articolo del giornalista sportivo Arthur Werner, riapparso recentemente sul sito internet dello stesso autore, dove si diede un resoconto sull’atteggiamento dei media sovietici durante quei giorni.
E il quadro che ne esce fuori è quantomeno deprimente. L’inviato a Roma del principale quotidiano sportivo dell’epoca (e anche di oggi), Sovetsky Sport, raccontò piuttosto dettagliatamente le gare disputate da Smirnov durante i campionati mondiali, fino al giorno dell’incidente. Da quel momento però lo citò solo una volta ancora, il 23 luglio, per riferire che “ha subìto gravi ferite, ed è ora ricoverato in ospedale”, soffermandosi poi molto più a lungo, e prodigandosi con toni trionfalistici sui successi degli altri schermidori sovietici. Secondo una tesi di Werner, addirittura, sarebbero state le stesse autorità sovietiche a richiedere espressamente il suo mantenimento in vita almeno fino al termine dei campionati mondiali. E, solo il 29 luglio l’agenzia Tass fece il suo nome per dare l’annuncio della sua morte, corredandolo di una telegrafica biografia.
Lo stesso Sovetsky Sport, vent’anni dopo i fatti, nell’aprile 2002, ha ricordato che “gli appassionati di sport sovietici hanno potuto conoscere la verità soltanto molto tempo dopo, perché la vita umana in quel periodo non valeva nulla di fronte all’ideale. E questo ideale (aggiungiamo “defunto“, parafrasando Fabrizio De André – n.d.a.) richiedeva di non traumatizzare e non impressionare mai la popolazione”.
Ma gli sportivi del mondo sovietico non furono gli unici ad essere tenuti all’oscuro di quanto era accaduto a Vladimir Smirnov. Anche sua moglie Emma, intervistata nel 2005 dal giornale ucraino Fakty i Kommentarii, rivelò che in quei giorni lo stesso allenatore della squadra sovietica Viktor Bykov la rassicurò sulla sorte del marito, mentendo sulle sue reali condizioni cliniche. Emma venne a sapere la verità solamente il giorno dopo la sua morte, leggendo le due laconiche righe di necrologio sulla pagina sportiva di un giornale del mattino.
In seguito alla tragedia di Roma si rinfocolarono le polemiche sulla sicurezza nella scherma, che portarono, in capo a un paio d’anni, a fissare dei nuovi standard per le maschere protettive e a rendere obbligatorio il corpetto in kevlar, un materiale già utilizzato anche per i giubbotti antiproiettile, e oggi rimpiazzato da altre fibre polimeriche ancora più resistenti. Per Matthias Behr, invece, si consumò l’altra faccia del dramma. L’incidente di Smirnov lo sconvolse, ed i giornalisti presenti al Palazzo dello Sport di Roma quel giorno lo descrissero con gli occhi ancora terrorizzati e il volto impallidito. Andò immediatamente nella sua camera d’albergo, dove si rinchiuse per tutto il resto della giornata. La mattina dopo, ancora sotto choc, fece ritorno in Germania.
Distrutto nell’animo, d’istinto decise di abbandonare l’attività agonistica, e quando tornò al proprio lavoro di maestro di scherma sentì che nulla era più come prima. L’incubo di quei fatti continuò a perseguitarlo, e solo il paziente intervento dell’allenatore della nazionale della Germania Ovest Emil Beck, il suo primo maestro alla scuola di scherma di Tauberbischofsheim, riuscì a fargli cambiare idea. Poco prima dei campionati europei di Mödling in Austria nell’ottobre 1982, Behr ritrovò la forza per ritornare in pedana. E siccome era un campione, insieme a quella ritrovò presto anche i successi. Sempre nel fioretto, l’anno dopo vinse il campionato del mondo a Vienna con la sua squadra della Germania Occidentale, e alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 arrivò alla finale individuale, dove venne battuto solo dal nostro Mauro Numa sul filo di lana. Fino al ritiro definitivo nel 1988, al termine delle Olimpiadi di Seul, che lo videro conquistare un’altra volta la medaglia d’argento, continuò ad essere tra i protagonisti a livello mondiale. Ma anche negli anni successivi la scherma e la vita di Behr non si sono più separate. Nel 1999 divenne per un breve periodo allenatore della nazionale tedesca, succedendo al suo maestro e compaesano Emil Beck, ed oggi è il direttore della scuola di scherma di Tauberbischofsheim, una delle più prestigiose della Germania.
Ma il dramma vissuto ai campionati mondiali di Roma è sempre rimasto a tormentare i suoi pensieri. E in un’intervista del marzo 2004 al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine ha confidato: “Mi basta essere in un supermercato e incrociare con lo sguardo una bottiglia di vodka con l’etichetta Smirnoff, per provare una sensazione orribile. Quel nome continua a impressionarmi. E mi sembra di rivederlo ancora”.
Caro Matthias, sei per me un caro amico, ti abbraccio forte!!!!!!
martedì 30 agosto 2011
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