sabato 30 aprile 2011

30 aprile 20110

Ciao amici, mi permetto di postare questo bellissimo articolo letto sul sito dell'Accademia della Scherma che ringrazio per il bellissimo lavoro che sta facendo.

Adolescenza e sport: nulla è cambiato


Non possiamo pensare di gestire il giovane di oggi con i sistemi ancora attuali nello sport. Non perché lo sport cambi secondo i tempi, ma perché il giovane lo interpreta in un modo diverso, e ci dovrebbe essere anche un istruttore che lo insegna e lo gestisce in modo diverso.

Partiamo da un'analisi dell'ambiente e dell'adolescente attuali. Dopo un periodo nel quale sono prevalsi valori e comportamenti collettivi e non sempre c'è stato l'impegno per renderli concreti, oggi assistiamo alla rivalutazione di obiettivi individuali e a una ricerca più responsabile di funzionalità e di autorealizzazione. E questi valori coinvolgono anche il rapporto del giovane con lo sport, tanto che troviamo sempre più professionalità nonostante siano aumentati gli impegni e le richieste.

Per gentile concessione dell'autore e di NuovoSportGiovani

Il giovane chiede riconoscimenti concreti per le sue capacità, stimoli adatti a una crescita personale e partecipazione nella conquista degli obiettivi. Vuole sapere, esserci, fare e far parte, e questo ci dovrebbe consigliare di non chiedere solo delle esecuzioni e di costringerlo su binari obbligati, ma di dargli spazio per esercitare tutta la creatività e l'iniziativa. Questo pare l'unico modo per avere uno sportivo allenato a pensare, a sperimentarsi, ad analizzarsi, a capire e sapere cosa fa e cosa si vuole da lui, ad essere più consapevole dei propri mezzi e più resistente alle richieste e alle sollecitazioni, oltre che più recettivo e pronto ad acquisire le tecniche per migliorare la prestazione.

Vuole essere diverso dagli altri e trovare un'identità propria che lo distingua. Non si accontenta più di esserci, ma vuole diventare, e lo sport gliene offre l'opportunità quando lo porta a scoprire e raggiungere le abilità possibili, lo ricambia con un riconoscimento concreto, e dunque sempre obiettivo, e gli offre la prospettiva di una realizzazione che sia adeguata ai suoi mezzi.

Rifiuta l'imposizione e le posizioni autoritarie, ma cerca, ed è di nuovo disponibile ad assumere, la figura adulta come guida. A patto, però, che essa sia concretamente stimabile e non troppo lontana.

Ha necessità di imparare a trovare da solo le soluzioni di cui ha bisogno, e a non fuggire le situazioni e le difficoltà che può affrontare e risolvere con le proprie sole forze. In pratica, per prepararsi a vivere il ruolo dell'adulto, deve poterne sperimentare e vivere, in ogni momento dello sviluppo, le sue stesse responsabilità e prerogative.

Il giovane ha debolezze e problemi. È ambivalente e incerto, imita e, intanto, cerca l'autonomia. Vive molte esperienze formative, ma anche molti dubbi. Appare sicuro e consapevole, ma rischia sempre di non sapersi riconoscere in una precisa identità. Ha un bisogno sicuramente accresciuto di affermarsi e di attirare su di sé l'attenzione, ma ha a che fare con un ambiente certamente meno disponibile a concederla, e non è mai sicuro di riuscire. Sente opprimenti le norme dell'ambiente, ma intanto ha paura quando si trova privo di riferimenti.

Rispetto all'adolescenza dei suoi istruttori, ha più interessi e occasioni per confrontarsi e per esprimere le proprie opinioni, e una più ampia libertà di decidere e di agire. Questo gli offre una visione più concreta del suo ruolo e dell'ambiente, ma proprio questa ricchezza di opportunità può trasformarsi in una causa di confusione e di incertezza.

Ha un maggior numero di desideri, e quindi di bisogni, e di opportunità per realizzarli, ma deve anche rispondere a un maggior numero di attese. Ha difficoltà a decidere: non serve, però, fornirgli le soluzioni, ma aiutarlo perché possa sentirsi all'altezza di ciò che deve fare e possa affrontarlo da solo.

Vive più esperienze, ruoli e climi, e un maggior numero di modelli ai quali fare riferimento. Per questo ha più necessità di una guida coerente che sappia soddisfare, allo stesso tempo, il bisogno di autonomia e la necessità di chiare regole dentro le quali sentirsi libero di agire.

È ambizioso e non sempre attento alle esigenze degli altri e, dunque, va indirizzato. Lo sport, come può essere formativo quando impone di far fronte alle esigenze con le proprie forze o di integrarsi e cooperare per raggiungere gli obiettivi, può, al contrario, stimolare un individualismo non produttivo, o privilegiare un solo interesse a spese di altre esperienze formative.

Nel gran numero di richieste e impegni, corre maggiori rischi di appagarsi di soddisfazioni o di successi parziali, ma sempre a portata di mano, e di non trovare le motivazioni necessarie per rendere concreto il singolo interesse, compreso lo sport.

Questa incertezza fa pensare che, spesso, neppure il successo nello sport, specie se presentato come un obbligo o un miraggio troppo lontano, possa essere una motivazione sufficiente. Inoltre, il miraggio di un successo troppo lontano può essere vissuto come irraggiungibile e, quindi, scoraggiante o, peggio, ritenuto certo, tanto da credere di possedere quanto basta per poterlo raggiungere.

È evidente, a questo punto del discorso, che la gestione dell'adolescente nello sport non può tentare di affrontare ogni singolo problema o limitarsi a proporre dei correttivi ai condizionamenti negativi dell'ambiente. La sintesi dell'intervento formativo, quindi, non può che essere la completezza dell'individuo, in altre parole un'identità non vincolata agli obiettivi raggiunti o a quelli possibili, ma a ciò che si sa fare per raggiungerli.

Quest'analisi segnala l'inattualità scientifica e culturale di quei metodi che trascurano la specificità del singolo a vantaggio di una rigida aderenza a modelli ottimali. Di quelli che trasmettono conoscenze e soluzioni precostituite, ma non l'autonomia per amministrarle da soli. Di quelli che ritengono sintomo di apprendimento e di evoluzione una buona capacità di esecuzione e una produttività immediata e priva di rischi. O, ancora, di quelli che prevedono valutazioni non obiettive: in eccesso, per sollecitare un maggior impegno, o in difetto, per scongiurare il pericolo di un appagamento, ma, in entrambi i casi, con una pressione scoraggiante.

Ci sono, quindi, anche dei rischi. L'adolescente è più autonomo, ha già sviluppato la capacità di pensiero astratto e sa vivere rapporti basati sulla stima e su una partecipazione consapevole, è stimolato dal desiderio di sperimentarsi con richieste più impegnative e dalla prospettiva di poter raggiungere il successo. Cerca un ruolo che appaghi ed è preparato a verifiche sempre più concrete, sa padroneggiare le situazioni, rispettare le regole del gruppo, fare progetti, seguire programmi e fissarsi obiettivi a lunga distanza ed è motivato a valorizzarsi rispetto agli altri. È quindi pronto per misurarsi con tutte le richieste dello sport, ma non ha ancora la resistenza dell'adulto.

Bisogna chiedergli solo le risposte possibili, non investirlo con aspettative che non lo interessano e non usare stimolazioni che non hanno efficacia o, peggio, possono confonderlo e scoraggiarlo. O, al contrario, non frenarlo quando sarebbe in grado di andare più in là di ciò che chiede oggi lo sport, perché una creatività e un'iniziativa che non hanno modo di esprimersi in direzioni costruttive possono inaridirsi o anche diventare distruttive.

L'adolescenza è anche il tempo in cui preparare l'atleta a sapersi esprimere al massimo del rendimento, ma occorre grande cautela, perché errori di tempi, di carico e di misura possono pesare sullo sviluppo che è ancora in atto e dare un agonismo confuso o troppo esasperato. Pensiamo, ad esempio, all'introduzione di stimoli non ancora tollerabili, a interpretazioni angosciose della gara o all'impiego di tecniche o interventi non capiti e mai assimilati in modo consapevole, che si trasformano in specie di rituali magici ed estranei, dai quali si dipende senza poterli padroneggiare.

Ma i rischi maggiori, l'adolescente li trova nel professionismo. Oggi è più sicuro e smaliziato, anche se le tensioni che si vedono sembrerebbero dire il contrario, sa cosa vuole e crede di poterlo pretendere, ma è inserito in un sistema che prevede l'arrivo al professionismo, e questo peso di dover riuscire a tutti i costi è gravoso. È lì per diventare campione: sente la carriera come unico traguardo e la ricchezza e il benessere come stimolo, ma prova anche la paura di non poterli raggiungere, e se non ce la fa, viene escluso. La selezione, infatti, è brutale: al professionismo arriva forse il 10% di quelli arrivati ai grossi vivai.

Un ambiente organizzato per formare il professionista, dunque, non offre solo vantaggi e, inoltre, non sempre usa i metodi più giusti. Impone le richieste e le responsabilità per preparare allo sport dell'adulto, ma lo fa troppo presto, e non possiede strumenti per stimolare i livelli più elevati dell'intelligenza, e così toglie spontaneità e frena la creatività e la fantasia. In pratica, va avanti chi è più resistente e adattabile e ha più qualità medie, ma non sempre chi è più dotato.

Vincenzo Prunelli



Vincenzo Prunelli è un medico specializzato in Neuropatologia e Psichiatria presso l'Università degli Studi di Torino; psicanalista della Società Italiana di Psicologia Individuale, consigliere della Associazione Italiana di Psicologia dello Sport; iscritto all'Ordine nazionale dei Giornalisti, ha scritto di argomenti scientifici, culturali e sportivi in modo non continuativo su La Stampa (Tuttoscienze e Specchio), Repubblica e Gazzetta dello Sport, e per due anni in modo continuativo su Tuttosport. E' direttore della rivista IL MEDICO SNAMI. E' ideatore e curatore del progetto NuovoSportGiovani

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